Testo e foto di Annamaria Semitaio

Dalla via Appia svolti a destra, direzione ponte Punta Penna, e già li vedi: a sinistra, sulla carreggiata che, in direzione opposta, porta sulla Taranto-Bari, si ergono, alti e minacciosi, i corpi di fabbrica dell’Ilva; sulla destra, dietro il muro di cinta, li fronteggiano gli edifici che ospitano le cappelle multipiano del cimitero. Sono l’una di fronte all’altro, la fabbrica e il camposanto dei tarantini. Lasciata l’auto nell’ampio spazio incolto, territorio da sempre affidato alle cure dei parcheggiatori abusivi, varchi la porta a ovest del cimitero comunale San Brunone. E subito lo senti. È un rumore sordo, monocorde, senza soluzione di continuità, che ti si conficca nella testa finchè ti sembra di non sentirlo più, e invece c’è sempre, sottofondo da cui non puoi prescindere. Non c’è silenzio, e non c’è pace , qui, per quei giovani che di là dal muro e dalla carreggiata hanno perso la vita troppo presto. La fabbrica non molla la presa nemmeno ora e infatti è sua anche la spessa coltre di terra nera, nera come il carbone, che ricopre il freddo marmo bianco. Il rumore non si ferma mai, oltrepassa i portoni di ferro delle cappelle, sale le scale dei palazzi senza vivi, vi penetra dalle finestre spalancate sullo scirocco. Forse quel rumore ha un’origine meccanica, molto probabilmente quell’origine appartiene alla grande fabbrica, ma per me è il rumore del tempo. Se il tempo facesse rumore.