Testo di Enrico Cerrini, foto di Hua Wang

Un giorno, viaggiando a Maribor con alcuni amici, un ragazzo sentì che parlavamo italiano e si mise a confabulare con noi. Era Montenegrino, stato che aveva da poco ottenuto l’indipendenza. Ci raccontava come nella sua terra natia facesse troppo caldo per lavorare, e preferisse oziare desiderando le donne serbe, che riteneva le più belle del mondo. Per lungo tempo, questa immagine edonistica è stata l’unica che ho avuto di questo piccolo paese, legato a doppio filo alla Serbia senza farne più parte.

Kotor(1)

Podgorica
Quando varchiamo la frontiera con la Bosnia, l’immagine del giovane conosciuto anni prima si materializza in un estenuante tempo di attesa per la verifica dei passaporti. L’impiegato inserisce lentamente tutti i dati dei viaggiatori sul suo computer. L’attesa pare interminabile. Fortunatamente, viene ripagata dalla vista dei canyon generati dai fenomeni carsici che caratterizzano gran parte dei Balcani. Ci troviamo in piena montagna, le strade appaiono selvagge, fuori dalla grazia del mondo occidentale. Dopo alcuni chilometri, si pone di fronte a noi una piccola auto che traina un carro, sul quale si staglia in piedi, fiero, un giovane cavallo mentre il vento ne fende criniera.
La strada per Podgorica è lenta e tortuosa. Attraversiamo pochi paesi prima di raggiungere la capitale, dopo una strada che appare interminabile, caratterizzata da poche indicazioni e solo un brevissimo tratto a quattro corsie. Se, da una parte, la città appare come un cantiere aperto con numerosi palazzi residenziali in costruzione, dall’altra si stagliano nuovi centri commerciali e centri congressi. Proviamo a fare un giro veloce nel centro, ma è difficile trovarne uno perché sono pochi gli spazi che richiamano i vecchi luoghi di aggregazione come le piazze e i mercati. Lo sviluppo urbanistico si basa su moderni centri aggregativi. Ci fermiamo alcuni minuti nel centro congressi che accoglie l’Hard Rock Cafè cittadino, freddo ma con forme accattivanti.

Il Lago Skadar
Alla ricerca di qualcosa di più confortevole, ci indirizziamo alla volta di Rijeka Crnojevica, noto paesino di pescatori. All’uscita della capitale, la strada è ancora in fase di ampliamento e ci troviamo bloccati nel traffico. Pian piano intravediamo il bivio che immette in un sentiero di montagna. Iniziamo a costeggiare quello che sembra un piccolo fiume, ma si rivela come la Pavlova Strana, uno dei paesaggi da cartolina più famoso del paese, dove il fiume Crnojevic si fonde con il lago Skadar. Lo visitiamo in un momento ideale. Insieme a noi ci sono solo un paio di amiche che hanno scelto di passare un sabato pomeriggio fuori dal tran tran di Podgorica, alcune auto si fermano di tanto in tanto, l’albergo in stile liberty che occupa la migliore posizione è chiuso, anche se si sentono i rumori degli operai che stanno preparando la prossima apertura. Il resto è solo natura: la collina si staglia davanti a noi mentre il fiume scorre sul lato sinistro per curvare si 180 gradi e confluire nel lago sul lato destro, l’acqua è verdastra, piena di piante simbolo di un ambiente lagunare che ospita miriadi di specie vegetali e animali, l’erba ha un colore verde acceso innaturale che copre e pervade tutto, nell’aria si sente un concerto di rane e rospi.
Il simbolo di Rijeka Crnojevica è il vecchio ponte di pietra sul lago Skadar. Oltre al ponte, il paese porta i segni di un villaggio turistico con eleganti ristoranti di pesce. Per rifocillarci ci fermiamo in quello più vicino al ponte, dismesso, caratteristico e amichevole. La signora è ospitale e comunicativa, ci dice che in questo momento ci sono quasi esclusivamente turisti locali mentre l’estate vede un intenso viavai di stranieri, soprattutto americani. Quando ricominciamo a guidare, sta iniziando a piovere. Ci fermiamo a Cetinje, antica capitale, dove visitiamo la via pedonale quando la pioggia si fa più pesante e d’un tratto il cielo si fa buio. Sebbene ci sia ancora molto da visitare, uno scroscio d’acqua si rovescia su di noi, siamo costretti a ripararci in macchina e dirigerci al più presto verso Kotor, più a nord, lungo le rive del più grande fiordo del Mediterraneo.

Identità
Nei dintorni di Kotor ci accoglie una coppia sulla sessantina, che ha ritagliato un appartamento nella propria casa. L’uomo ci dice subito di non aspettarci troppo dalla camera, perché è un ambiente familiare. Parla molto bene italiano, dice di averlo imparato guardando la tv. I due sono appassionati del popolare programma di Rai1 “Linea Verde”. In loro c’è tutta l’ospitalità e la curiosità dei popoli di mare e ci fanno ben presto sentire a casa nostra: mi offrono subito un bicchiere della grappa che producono nel suo giardino, e mi invitano a fare colazione con loro l’indomani, anche se non è compresa nel prezzo.
All’uomo piace parlare, si sente vicino alla cultura slava ma anche a quella italiana. Nella sua visione del mondo, Montenegro e Italia sono uniti da quel mare Adriatico che tante fortune causò alla Serenissima Repubblica di Venezia, di cui si possono trovare numerose tracce nel piccolo stato balcanico. Ricorda che i nostri popoli sono stati vicini e solidali anche nelle disgrazie, ricorda i racconti dei vecchi montenegrini che non disprezzarono le truppe italiane durante la seconda guerra mondiale. Sebbene il regio esercito, capitanato dai gerarchi fascisti, fu colpevole dell’indegna occupazione del territorio montenegrino, i soldati italiani si comportarono più umanamente rispetto ai tedeschi.
La donna appare profondamente religiosa e non gli piace parlare di politica, mentre l’uomo potrebbe essere un nostalgico dei tempi che furono, quando Tito guidava una Jugoslavia forte e unita. Non c’è nazionalismo nelle sue parole, sembra soprattutto mancargli quella capacità che aveva il Presidente Jugoslavo di influenzare la geopolitica mondiale, allontanandosi e avvicinandosi all’Unione Sovietica, oppure facendo saltare il tavolo formando i paesi non allineati che non aderivano né alla NATO né al Patto di Varsavia. Dalle sue parole traspare come oggi il Montenegro sia un piccolo paese che sta sempre più perdendo i contatti con il vicino di sempre, la Serbia. Dopo aver ottenuto l’indipendenza, Podgorica ha allacciato rapporti con nuovi partner che vogliono investire in un paese che ha tutte le carte in regola per diventare una delle mete privilegiate del turismo mondiale. Ad esempio, l’Azerbaijan reinveste parte dei profitti della vendita del gas del mar Caspio nell’ammodernamento del paese adriatico. Anche la Cina mostra interesse e recentemente una delegazione montenegrina ha visitato Pechino. I mandarini hanno chiesto loro “Ma quanti abitanti ci sono in Montenegro?”, “Circa 600.000 persone”, “Allora la prossima volta potete venire tutti!!”. Il simpatico invito mostra quanto sia minuscolo il paese, che dopo dieci anni di indipendenza deve ancora affrontare molti nodi infrastrutturali, è privo di un ruolo geopolitico, ma ha la possibilità di creare un brand turistico internazionale che porti ricchezza in tempi brevi.
Continuando la conversazione, mi sembra sempre più difficile comprendere la differente identità di questo popolo rispetto alla Serbia. In modo da rimarcare la diversità culturale e religiosa, la Croazia e la Bosnia hanno scelto di utilizzare l’alfabeto latino anziché il cirillico in voga a Belgrado. Al contrario, il Montenegro, dove su 600.000 abitanti quasi 200.000 si definiscono serbi e dove la maggioranza della popolazione si professa di fede ortodossa, sembra aver preferito rimanere in un limbo dove i due alfabeti possono essere entrambi utilizzati.

Le Bocche di Cattaro
Il giorno dopo ci immergiamo in quella meraviglia della natura formata dalle bocche di Cattaro, dove le montagne svettano intorno a quell’acqua salata ben distante dal mare aperto. L’acqua non assume quel colore verdastro proprio del lago Skadar ma è azzurra, scorre viva, aggressiva e pulita perché la corrente adriatica inizia il suo corso in Grecia per arrivare lentamente in Italia toccando Albania, Montenegro e Croazia. Di conseguenza, il nostro Adriatico è molto più sporco e meno ricco dal punto di vista naturalistico, rispetto ai nostri amici orientali.
La città di Kotor è un piccolo gioiello della Serenissima, incastonata nelle mura in cui prende vita il fiero Leone di San Marco. Perdersi tra i vicoli e visitare le due chiese principali, una cristiana e l’altra ortodossa, sono le attività migliori prima di iniziare la scalata verso la fortezza. Circa mille scalini ci separano dalla roccaforte costruita dagli Illiri secoli prima, ridotta ad un cumulo di rovine che affascinano ancora artisti e viandanti. Dalla sua vetta colpisce l’immagine nitida di tutta la baia: la città si trova in basso, di fronte il mare è contornato da grandi montagne verdi. In mezzo al percorso si trova la piccola chiesa, altro luogo da cartolina. Fortunatamente, al momento, questo luogo non è ancora saturo di mercatini, vi si intravede solo una signora che cerca di vendere acqua, birra o bibite per rinfrescare i passanti.
Ripartendo in direzione della Croazia, continuiamo a seguire la strada lungo il fiordo fino ad arrivare al paese di Perast, situato davanti a due isolette, una naturale e una artificiale, che danno un tocco magico alla baia perché ognuna ospita una chiesa. Ci fermiamo ancora per fotografare le montagne finché queste scompaiono e il fiordo sembra tramutarsi nell’estuario di un fiume. Raggiungiamo Herceg Novi, l’ultima cittadina prima del confine, altra città medievale dove si notano i segni della Serenissima. Possiede un piccolo centro storico a picco sulla costa adriatica, sovrastato da rocche e rovine che appaiono meno affascinanti di quelle viste sinora. Visitiamo la chiesetta ortodossa e la piazza principale, dove, oltre all’imponente torre dell’orologio, si trovano numerosi bar.
Ci sediamo per gustarci un caffè montenegrino, variante di quello turco. Qui il caffè non possiede la componente rituale che si può osservare oltre il confine bosniaco. Quel delizioso misto di polvere e liquido nero viene servito in una tazza comune, accompagnata solo da una banale bustina di zucchero: è un caffè turco travestito da caffè occidentale. Fra poco saremo in Croazia, ma l’amaro caffè lascia il ricordo di una indecisione di fondo nella cultura montenegrina, quella di un popolo in eterno bilico tra l’essere eccezionali oppure semplicemente serbi. L’impressione è quella che questo popolo adriatico si sia fermato in un lungo periodo di transizione dove si è deciso di non decidere, di porsi in mezzo al guado. Per rimarcarlo si usano tutti gli strumenti a disposizione, dall’alfabeto al caffè.