Testo e foto di Francesco Rinaldi

 

Casapesenna, un paese nel casertano, sembra essere una copia cementificata dell’antica Pompei. Case che si snodano lungo strette vie, cubi di cemento con un cortile centrale, enormi muri ed un mastodontico portone di ferro, sempre chiuso. Ma in una di queste case qualcosa è cambiato: i cancelli sono aperti, si entra e si esce liberamente, senza paura.

In un bene confiscato alla camorra, il consorzio Agrorinasce, Terra Nostra, Terra Nuova e la Seconda Università degli Studi di Napoli, trasformano la casa del boss Luigi Venosa in un centro di aggregazione giovanile per l’arte e la cultura, con caffè letterario, sala scultura, sala pittura e sala incontro.

Ora in queste stanze, fino al 24 gennaio, c’è “Arsfelix. Gli anni settanta all’ombra della Reggia” una mostra d’arte dove 25 artisti rievocano il periodo di maggior fermento dell’arte casertana, momento felice dove l’arte era collettiva, d’impegno politico e sociale. E nel cortile, due street artists, Giò Pistone e Alberonero, con i loro colori danno vita alla rinascita di questo luogo con un’opera murale, dove un bruco che diventa farfalla vola insieme a cubi colorati verso il cielo, e un animale fantastico ha il cielo al posto degli occhi.

Giò Pistone

Giò Pistone

Si cita Dostoevskij, “la bellezza salverà il mondo”, compito arduo quello dell’arte che prova a scardinare la vita blindata di qui e, a giudicare dalle centinaia di ragazzi che con le loro scuole si affollano nella mostra, forse ci sta riuscendo.

I giovani pongono domande e Luca Palermo, il curatore della mostra, dottore di ricerca, giovanissimo e valente critico d’arte, che li incuriosisce, li invita a prendere il cellulare e googlare Lucio Fontana e Warhol, mentre su un quadro di Lorenzo Riviello, opera degli anni Settanta, una bambina corre con un palloncino rosso, trent’anni prima della bambina famosa di Banksy. E loro colgono l’occasione per accendere lo smartphone, cercare parole nuove, una volta tanto in cui non usano il telefono per andare su facebook o fare inutili selfie, ed un mondo nuovo gli si apre.

Forse è di questo che hanno bisogno: dell’arte, del bello, dei colori, e della parola amore che don Peppe Diana spesso usava, “amore per il mio popolo”, nella sua casa a Casal di Principe, ora trasformata anch’essa in museo, con un’altra mostra di prestigio “La luce vince l’ombra”, con opere provenienti dalle collezioni degli Uffizi, del Museo di Capodimonte, della Reggia di Caserta e del Museo Campano di Capua, opere del Caravaggio, Mattia Preti, Warhol e tanti altri.

Ora Casale e Casapesenna sono paesi “nelle terre di Don Peppe Diana”, e non del feudo dei casalesi. Qui qualcosa sta cambiando non solo nelle parole, ma anche nei fatti. L’arte che va nelle periferie di Caserta e di Napoli, di Bari e di Palermo e “strappa” manovalanza alla criminalità organizzata.