testo e foto di Valentina Cabiale

“Che il vento soffiasse pure, che il papavero si disseminasse e il garofano s’accoppiasse col cavolo. Che la rondine facesse pure il nido nel salotto, e il cardo s’infilasse tra le piastrelle, e la farfalla si posasse al sole sullo sbiadito cinz delle poltrone. Che i frammenti di bicchieri e porcellane se ne stessero pure sparpagliati sul prato ad avvilupparsi d’erba e bacche selvatiche. (…) Poi sarebbe crollato il tetto; rovi e cicute avrebbero cancellato il sentiero, lo scalino e la finestra, crescendo in modo diseguale, ma lussureggiante, sulla montagnola di terra, finché soltanto una tritoma in mezzo alle ortiche o un frammento di porcellana nella cicuta avrebbero indicato ad un qualche passante smarrito che lì un tempo era vissuto qualcuno; un tempo c’era stata una casa”. (Virginia Woolf, Gita al faro)

Nella seconda parte di Gita al faro Virginia Woolf racconta la vita della famiglia Ramsey descrivendo la loro casa delle vacanze disabitata, abbandonata, in rovina. La signora Ramsey è morta. La figlia Prue si sposa e dopo qualche mese muore per complicazioni legate al parto. Andrew, uno dei figli, muore per l’esplosione di una granata durante la prima grande guerra. Avvenimenti che vengono riportati brevemente con frasi inserite in parentesi quadre. Il racconto è tutto per le pareti, gli oggetti, gli alberi e i fiori della casa avvolti nel silenzio, nell’assenza, nel tempo del vivere senza uomini che camminano e riempiono lo spazio. Questa parte del romanzo è un grande, meraviglioso, vocabolario dell’abbandono: il buio ingoia le tende, la carta da parati, il vaso di dalie rosse, il pavimento cosparso di paglia; i cardini arrugginiscono, i battenti gonfiano, le stuoie marciscono, i tegami e le porcellane si incrostano, anneriscono, si screpolano; le lettere rimangono strappate nel cestino della carta straccia, i libri tutti chiusi, le porte inchiavardate, i materassi arrotolati; le gonne sbiadiscono nell’armadio, i conigli saltellano da un’aiuola all’altra ad ogni rumore, un cardo s’intrufola pigramente tra le piastrelle, le farfalle prorompono dalle crisalidi per schiantarsi contro il vetro di una finestra.

Il tempo della casa in sfacelo non ha nulla a che vedere con quello del vivere umano. Eppure i due tempi o stati, forse sarebbe meglio chiamarli così, coesistono. Oggi, contemporaneamente a me che scrivo seduta al sole sui gradini lungo il Po, a Torino, ci sono città che vanno in rovina, che stanno già rovinando da decenni e secoli; case e appartamenti vengono abbandonati per non essere forse mai più abitati – è ancora presto per dirlo, nessuno dei loro vecchi occupanti lo direbbe ancora. Private degli uomini, le case lentamente si modificano. Come le impercettibili ma evidenti mutazioni delle piante grasse.

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In uno dei suoi primi romanzi, La stanza di Jacob, Woolf aveva già fatto qualcosa del genere scegliendo di far comprendere la morte di Jacob sul campo di battaglia tramite la descrizione degli oggetti abbandonati nella sua stanza. Un modo per oggettivare, per raccontare la morte che è principalmente – per chi sopravvive – assenza e decadenza e sfiorire delle tracce che ha lasciato di sé chi è morto o, più in generale, delle tracce di quello che era un tempo (una casa, ad esempio). Ma il racconto delle persone attraverso i loro oggetti è anche un mezzo per rendere evidente la sopravvivenza degli oggetti. La natura, gli esseri animati e inanimati, ci sopravvivono. Così l’immagine di una casa in rovina, avvolta dall’edera, con il tetto sfondato dagli alberi, è ambivalente, racchiude morte e rinascita. È un’immagine di morte solo se pensiamo che gli unici a vivere pienamente siamo noi.

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Le case in rovina di Borsana, borgo abbandonato nell’entroterra di Finale Ligure, raccontano di una morte ancora in corso, come se ci fosse una resistenza, incomprensibile; e di altre vite (non più umane) senza controllo, finalmente, prive di sguardi. Borsana è morta di una morte violenta. Non rientra nella fenomenologia dei paesi il cui abbandono è stato lento e in qualche modo spontaneo, come è accaduto per molte borgate delle valli cuneesi o dell’entroterra ligure. Assomiglia di più ai paesi cancellati dal terremoto in Irpinia, nell’aquilano, nel Belice. Borsana era una piccola frazione di Magnone, oggi compresa nel territorio di Vezzi Portio, comune costituito dall’unione di quattro località (Magnone, Portio, San Giorgio e San Filippo).

A inizio anni ’70 fu acquistata dalla Autostrada dei Fiori S.p.A., che poche decine di metri più in basso stava portando avanti la costruzione di un tratto della Genova-Ventimiglia. Gli atti di esproprio per pubblica utilità tra la società autostradale e i privati datano tra la fine degli anni ’60 e l’inizio anni ’70; furono inoltre emessi diversi decreti prefettizi, prorogati nel tempo, che autorizzavano la Società ad occupare in via permanente le aree interessate. Durante il periodo della seconda guerra mondiale gli abitanti di Borsana erano circa 40 e si erano ridotti a circa 13 sul finire degli anni ’60. Esistevano due borgate di abitazioni, una inferiore – completamente scomparsa – nella zona della grande scogliera artificiale che sormonta l’autostrada,  e una superiore oggi quasi completamente avvolta dalla vegetazione*. La si intravede a malapena dal parcheggio dell’area di servizio  “Borsana sud”, guardando verso monte nel lato opposto a quello dell’autogrill: piccoli rettangoli grigio opaco tra le fronde fitte degli alberi.

Abbiamo provato, io e Mirabolano, a raggiungere Borsana dalla strada sterrata che parte dal Municipio di Magnone, una strada che porta proprio il nome di Borsana (il toponimo sopravvive solo nel nome di questa via e in quello dell’area di servizio dell’A10; invano si cercheranno sul web notizie del borgo abbandonato). All’inizio della sterrata, sul muro esterno di una casa, c’è una targa bianca: IN REGIONE BORSANA CAMILLO SBARBARO DAL 1944 AL 1945 DIMORO’. È per questo, per Camillo Sbarbaro, che io e Mirabolano siamo andati alla ricerca di Borsana. Sapevamo che durante i bombardamenti del 1944 il poeta sfollò qui e in quei mesi di esilio mise in versi la traduzione del Ciclope di Euripide; e fu felice, pare. Via Borsana, la vecchia strada che portava alla borgata, è stata letteralmente tagliata. Dopo poche decine di metri lungo le ultime case prima dell’inizio del bosco, essa scompare, cancellata da una colata di cemento. Forse si può proseguire arrampicandosi per la montagna ma noi abbiamo preferito un’altra via, dal basso. La via di accesso più semplice per arrivare a Borsana è oggi, infatti, la continuazione della strada che permette ai dipendenti l’accesso all’area di servizio autostradale. Strada che prosegue salendo verso il bosco e diventando presto un sentiero stretto tra rovi di more, con cinghiali grufolanti (sentiti, visti). Di qui siamo saliti (io totalmente inadeguata con sandali di pelle rossa dal tacco consumato; Mirabolano un poco – poco – più attrezzato con bastone scaccia vipere) e abbiamo raggiunto i terrazzamenti costruiti durante i lavori per l’autostrada, a contenimento della scarpata. Da lì le case di Borsana non si vedono, almeno in estate, nascoste dalla vegetazione fittissima. Conviene seguire i canali in cemento che tagliano il pendio, concentrici e, appena i rovi lo permettono, puntare verso l’alto. Mirabolano ha intravisto un filare di vite, e quello che pareva un albero di fico, poco distante. Uno dei canali ci ha portati diritti alla vigna, storta ma ancora in piedi. Da quel filare di vite si entra oggi in Borsana. La vigna dimostra meno di 40 anni di abbandono (può la resistenza per inerzia essere stata tanto tenace?). Forse uno dei vecchi abitanti sarà ancora tornato, per diversi anni, a coltivarla. Il paese (un piccolo gruppo di case di pietra) è inghiottito dal bosco.

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Le strade si sono fatte caverne di more ed edere, le stanze sono tutte buie (sia che gli alberi abbiano già travolto il tetto, sia che le coperture non siano ancora crollate), con qualche bottiglia a terra, mobili spezzati, un tavolo ribaltato. La casa al numero civico 2 è stata evidentemente abitata anche dopo gli anni ’70. A una parete è appeso un calendario del 1989 con una foto di papa Wojtyla. Intorno sono sparsi giochi per bambini, un triciclo con Winnie the Pooh. Tutto sembra essere stato abbandonato rapidamente: i palloni per terra, il giaccone impermeabile appeso al muro, la stufa di ghisa in mezzo alla stanza, la bicicletta appoggiata a una parete, la finestra aperta che dà verso le montagne del Finale. Chi abitò questa casa oltre l’abbandono del borgo era la stessa persona che coltivava la vigna? Che aveva appeso i pantaloni di un pigiama bianco a uno dei pali, come spaventapasseri? Ho anche pensato, incuriosita, che la casa al num. 2 possa essere stata il covo temporaneo di un bambino rapito.

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Qualche giorno dopo un’amica mi ha scritto che, passeggiando, le era passata accanto un’auto su cui qualcuno ascoltava e cantava Diavolo in me di Zucchero, e lei si era ritrovata a pensare “Toh, ridendo e scherzando questa canzone avrà già 20 anni…”. Sono andata a controllare: è del 1989. Però mi è più facile immaginare i 25 anni passati guardando l’interno di quella casa piuttosto che ascoltando Diavolo in me. Eccola, la necessità delle rovine. Marc Augè, nel suo bellissimo Rovine e macerie, ha scritto, forse con una punta di sconforto, che il mondo contemporaneo non produrrà più rovine. Non credo che sia così. Certo, stiamo riducendo le rovine, le cancelliamo, ogni scavo edile è distruttivo come mai in passato. Non capiamo neppure quali siano, le rovine. Ci scandalizziamo, per pochi giorni, quando una porzione di un muro di Pompei crolla – ignorando completamente che Pompei è un’enorme gigantesca rovina – senza chiederci se e quale senso abbiano per noi quei muri.

Sembra che certi luoghi inizino a diventare rovine perché nessuno li considera più utili. Quello che hanno contenuto (esistenze, emozioni, incontri) cessa di avere importanza.

Pochi luoghi mi sono sembrati più di terraferma come Borsana, che pure è a pochi passi dal mare. Montale definì Camillo Sbarbaro “uomo di terraferma” e osservò come raramente il mare compaia nelle sue poesie, per quanto poeta nato e morto in Liguria (Corriere della sera, 1967). Ancora Montale scrisse che centro dell’ispirazione dei Trucioli (una raccolta di prose scritte tra il 1914 e il 1940) erano “l’amore del ‘resto’, dello ‘scarto’, la poesia degli uomini falliti e delle cose irrimediabilmente oscure e mancate” (E. Montale, prefazione a C. Sbarbaro, Poesia e prosa, a cura di V. Scheiwiller, Milano 1979). Non c’è quindi da sorprendersi se Sbarbaro scelse da sfollato una casa abbandonata, già un poco rovinata. Eppure quello di Borsana è uno Sbarbaro diverso da quello riflessivo, malinconico, talvolta disadattato, che appare in molte sue poesie. Pur nel mezzo della guerra, lontano da casa, è un uomo sorprendentemente felice. Da Fuochi fatui (che inizia a scrivere proprio a Borsana):

Maggio ’44. In previsione di sbarchi alleati, il comando tedesco ci caccia da Spotorno. Trovo nei monti qua sopra, a Borsana, una casa in rovina, abbandonata da anni dai proprietari emigrati in America. Mi decide a fissarla la pianta di santolina che è in fiore sul ponticello d’accesso.

(La santolina è un piccolo arbusto sempreverde che in estate produce dei fiorellini gialli; Sbarbaro era un lichenologo e un botanico esperto)

La sera del 15 giugno, con la sorella, raggiunge Borsana. Inizia così, con una cena sull’erba, la permanenza nel paese, che durerà fino al 18 ottobre. Ad agosto vengono a sapere che la loro casa a Spotorno è stata bombardata. Clelia, la sorella, racconta che Camillo affrontò con entusiasmo una vita di disagi: doveva recarsi nel bosco ad attingere acqua all’unico zampillo della borgata; scendere ogni mattino incontro al postino, che portava da Spotorno il pane della tessera, girare di casolare in casolare per trovare due uova, un po’ di verdura, di frutta. (Clelia Sbarbaro, Camillo Sbarbaro nei ricordi della sorella, C. Sbarbaro, Poesia e prosa).

Ancora dai Fuochi fatui:

Avvenimenti: l’abbraccio all’alba dei noccioli sguazzosi; il pozzetto costruito dal capelvenere dove vado a attingere l’acqua trasudata dalla roccia; i candelabri azzurri della cicoria che al primo sole si spengono; la pianta di malvone che all’improvviso come per malefizio, rientrò l’unico fiore di cui spiavo lo sbocciare.

Il contatto della terra mi ringiovanisce. In vista, laggiù le arme: i monti di pietra rosea di Finale.

Sfaccendato, mi provo a mettere in verso il “Ciclope”; a un tavolinetto che sposto sotto l’unica finestrella (con impannate di carta) tra nugoli di mosche; felice.

Il Ciclope di Euripide, che Sbarbaro mette in versi in quei giorni (dopo averlo precedentemente tradotto), è l’unico poema satirico dell’antichità greca giunto integralmente fino a noi. È una parodia dell’episodio di Ulisse e Polifemo narrato nel IX canto dell’Odissea. La storia, in questo caso ambientata in Sicilia ai piedi dell’Etna, non si discosta molto dal mito omerico, ma il ciclope qui non è più un essere selvaggio, fuori da ogni forma di civiltà, che suscita un orrore nero e puro,  ma è un orco ingordo, un mostro risibile che non fa più nemmeno paura. Forse fu per caso che Sbarbaro in quei giorni di guerra scelse di occuparsi proprio del Ciclope; o fu un modo per esorcizzare l’assenza di civiltà, l’ottusità che non può avere nulla di eroico. Si divertì molto, nel farlo (forse troppo, scriverà anni dopo). Le versione del Ciclope sarà pubblicata nel 1960 e nella dedica all’editore Scheiwiller il poeta scriverà: “A Vanni, questo vino, il più schietto d’Euripide che travasai per mio uso, nel paese dell’origano e delle farfalle, l’estate del ‘44”.

Sbarbaro non dimenticherà mai il paese dell’origano e delle farfalle. Ricorderà quei giorni ancora molti anni dopo, in una lettera a Gina Lagorio (29-4-1959): In una catapecchia la stanza piena di mosche e col pavimento che a camminarci sopra tremava, alla luce di una finestrella aperta raso suolo, con le impannate di carta. Ma che giorni felici, tra il Ciclope, la tazza di karkadè e le sigarette di mentuccia che io confezionavo. Non è la prospettiva a farmeli vedere così belli quei mesi passati lassù. E c’era Benedetta  [la zia, morta nel 1953].

Finalmente, nel 1962, torna a Borsana. Lo scrive alla Lagorio in una lettera di novembre:

Dopo anni che lo desideravo, sono andato a Borsana (il luogo del nostro esilio del ’44) e per rifarmi, ci sono andato quattro giorni di seguito.

Giorni dei quali null’altro sappiamo. Camillo Sbarbaro muore nel 1967, mentre i giornali annunciano che manca poco alla fine della costruzione della Genova-Ventimiglia, con un entusiasmo che oggi trasmette una tenerezza un po’ arrabbiata. Da La Stampa, 21-10-1967: …un automobilista potrà coprire il percorso Savona-confine francese in un’ora e mezzo contro le attuali quattro ore.

L’autostrada viene inaugurata il 6 novembre 1971.

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Alla fine della seconda parte di Gita al faro, la casa dei Ramsey torna ad essere abitata. Tutto a un tratto, una delle signorine aveva scritto se per piacere la signora McNab poteva vedere di preparare la casa; se poteva far questo se poteva far quello; tutto di gran fretta. Forse sarebbero venuti per l’estate. (…) Lentamente, a fatica, con scopa e secchio, lavando, sfregando, la signora Mcnab e la signora Bast posero freno alla decomposizione e alla putrefazione; salvarono dal diluvio del Tempo che stava per richiudersi su di loro ora un catino, ora una credenza. Un mattino sottrassero all’oblio tutti i romanzi di Waverley e un servizio da tè; nel pomeriggio riportarono alla luce del sole un parafuoco d’ottone e i ferri per il caminetto. George, il figlio della signora Bast, acchiappò i topi, e tagliò l’erba. Chiamarono i muratori. (…)

È utopia immaginare che i luoghi abbandonati, senza più nemmeno strade che li raggiungono, possano rivivere? Esiste una linea oltre la quale non è più possibile invertire l’abbandono? Borsana attende. Ha, quantomeno, un enorme potenziale. Certo, provabile, reso forte da testimonianze scritte: la felicità di poche settimane di un unico uomo.

 

 

* I dati riportati mi sono stati riferiti dal sindaco di Vezzi Portio, Germano Barbano, che ha pazientemente raccolto le testimonianze di alcuni ex-abitanti di Borsana; lo ringrazio caldamente per la gentilezza e la disponibilità.

Su Sbarbaro:

Camillo Sbarbaro, Poesia e prosa, a cura di V. Scheiwiller, ed. Mondadori, Milano 1979

Camillo Sbarbaro, L’opera in versi e in prosa, a cura di G. Lagorio e V. Scheiwiller, ed. Garzanti, Milano 1985

Estratti delle lettere a Gina Lagorio: P. Zoboli, Sbarbaro e i tragici greci, ed. Vita e Pensiero, Milano 2005, pp. 60-61

Su Borsana: Lorenza Russo, Cantastorie, ed. Il Melangolo, Genova 2013, pp. 11-16

Le citazioni da V. Woolf, Gita al faro, sono tratte dall’edizione Newton, Biblioteca Economica, Roma 1993