Testo e foto di Giulia Usai

A dispetto delle diverse confessioni religiose alle quali si aggrappano i cittadini di questo stato che non si sente nazione, diviso da rancori interni che dopo la guerra sopravvivono dissimulati ma irrisolti, c’è una bevanda che risveglia in serbi, bosniaci e croati un sentimento di appartenenza comune: il caffè. Il gusto e lo stile di preparazione sono inequivocabilmente quelli del caffè alla turca, ma in Bosnia ed Erzegovina i consumatori ci tengono alla distinzione, e sottolineano che si tratta di caffè bosniaco. A variare non è la qualità del chicco o la procedura di bollitura, ma il diverso modo di servirlo e assaporarlo.

Da Mostar a Banja Luka, dalle aree a maggioranza musulmana a quelle prevalentemente cristiano-ortodosse o cattoliche, ogni famiglia possiede una džezva, la caffettiera tubolare con la base allargata e il manico lungo fissato al collo popolare in Nord Africa, Medio Oriente, Caucaso e Balcani.

Per preparare il caffè bosniaco, all’interno della džezva si mettono alcuni cucchiaini di polvere finissima di chicchi tostati e ci si versa sopra dell’acqua bollente. Il contenitore viene poi trasferito sul fornello e lì lasciato sino a quando attorno alla bocca si concentra una schiuma scura dalle bolle larghe e fitte che per consistenza ricorda la cioccolata calda. Questa crema viene addensata portando il liquido alla soglia del bollore e allontanandolo dal fuoco più volte.

Una volta trasferita la džezva in tavola avviene il rituale che fa meritare al caffè la definizione di autoctono. Accanto al pentolino fumante si dispongono un bicchiere d’acqua fresca, una ciotola di zollette di zucchero, un cucchiaino, una tazzina bassa in ceramica senza manico detta fildžan e un lokum, spesso aromatizzato all’acqua di rose. Con il cucchiaino si preleva qualche goccia d’acqua dal bicchiere e la si versa sulla schiuma di caffè pronta a traboccare. Per reazione alla differenza di temperatura le bolle calano leggermente, e mescolando in superficie si ottiene una crema più omogenea che in una o più cucchiaiate va trasferita nella tazzina. A questo punto, senza inclinare troppo la džezva, si versa una prima porzione di caffè sopra la spuma, quindi si sceglie una zolletta di zucchero da inzuppare nel liquido perché se ne impregni, la si succhia leggermente e si beve il primo sorso di caffè. Svuotata la prima fildžan, la džezva contiene abbastanza caffè da poterla riempire altre due volte, anche se è importante fare attenzione a non rovesciare i residui del fondo, che devono restare nel recipiente di metallo. Solo alla fine si addenta il lokum spolverato di zucchero a velo dalla compattezza gelatinosa, concedendo al palato l’indulgenza un po’ stucchevole della caramella che compensa l’amaro del caffè.

Quattro secoli di dominazione ottomana, oltre ad aver lasciato un’eredità profonda sull’architettura, la musica e la cultura religiosa della Bosnia, sono testimoniati dalla cucina locale, dall’impronta così profondamente turca. Il rito del caffè però, pur derivando direttamente da centinaia di anni di dominio straniero, è stato rielaborato dai popoli balcanici per diventare un simbolo di appartenenza ecumenico, che funge da compromesso alla loro identità frammentata.

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Giulia Usai è in Bosnia da alcune settimane con il Servizio Volontario Europeo. Per noi ha pubblicato alcuni articoli sullo Sri Lanka e dalla Georgia.