Testo di Irene Russo – foto di Alessandra Calò/

@AlessandraCalò

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Al Campovolo il 19 settembre Dio si è fatto uomo per noi, per additare la strada del suo regno e sembrare uno come tanti, un impiegato bolognese o un palestrato veneto. “Le canzoni di Ligabue sono belle perché potrei scriverle anch’io”, dice l’operaio venuto al concertone con un biglietto saltato fuori la sera prima al bar. Meno convinto sembra l’ambulante abusivo di Milano, calato dalla metropoli insieme a una falange dell’orda per vendere bottiglie di birra sprofondate nel trolley in modo che la polizia non si accorga: “È già tanto se riprendo le spese”, dice.

La matematica invece si fa più difficile quando si arriva all’ordine dei milioni di euro: due pakistani che vedranno il concerto oltre le inferriate, conteggiano l’incasso del mega evento, al netto di altri milioni di spese. Cinquanta euro a biglietto per centosessantamila, una quantità di pubblico pari alla popolazione della cittadina di Reggio Emilia. Pare che anche in Pakistan ci siano stati artisti capaci di muovere un tale flusso di gente, per esempio Ali Khan considerato una delle voci più straordinarie di sempre.

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Lungo via Adua uomini, donne e bambini sfilano tutti lenti e decisi, topi del pifferaio o una colonna di profughi se visti di spalle. Con passo lento e zainetto, prima o poi arriveranno all’ingresso. “Meglio questi che quegli altri”, dice una residente spingendo un’anziana in carrozzina. Preferisco quest’invasione qua, che porta allegria, non è mica con la rabbia e con la disperazione… Mi ricorda la festa dell’Unità nazionale di trentadue anni fa, quando c’era Enrico Berlinguer. Un milione di persone”. La signora sfila nel senso opposto alla folla: ha già visto il suo concerto nei quattro lunghissimi giorni di prove, col naso sulla rete metallica, la maglietta di Ligabue e la soddisfazione dell’anteprima. Quattro lunghissimi giorni che facevano tremare i vetri anche in centro città e insinuare nei residenti il terrore di rimanere sequestrati in casa a causa delle limitazioni di traffico. Un regalo per chi non ha i soldi per pagarsi il biglietto.

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Tra i pochissimi che vanno in senso contrario, guardando in faccia il popolo del concerto, il più ispirato è senza dubbio il predicatore di una chiesa evangelica. Avanza col suo microfono e la Bibbia bene in vista come si espone a mare il cocco perché nessuno resista al richiamo. Tra le pecore smarrite urla a gran voce il pregio della mercanzia: “Gesù Cristo è l’unica salvezza!”.

Ha scelto il giorno giusto e il luogo giusto, ben consigliato da un collega che vive a Reggio Emilia. Non importa se qualcuno ridacchia al suo passaggio. “Mentre il mondo va alla deriva, mentre il mondo va allo sbando, mentre il mondo va verso una fine, noi veri cristiani attendiamo il ritorno del Messia, che ritornerà dal cielo per portarci nel regno celeste che lui ha preparato per coloro che lo amano e che confidano in lui”.

@Alessandra Calò

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Ma per oggi il regno è in fondo al viale, dove Campovolo smette di essere un aeroporto da diporto e diventa il nome di un paese per chi non lo sa. Di quel che succede dentro si sentono già notizie, soprattutto stando davanti alle ambulanze: qualche svenimento, qualche colpo di calore, qualche cistite sopraggiunta per tenere occupato il posto migliore e non perdere tempo in fila per il bagno. Il grande concerto del Campovolo non è ancora iniziato, eppure la felicità cresce negli occhi della gente raggruppata all’ingresso nel punto più propizio per i selfie. Fu vera gloria? “Erano da quattro anni che non facevo un sabato a casa”, dice la barista del Mugello. “Basta non essere a lavorare che è tutto bello”.