Testo e foto di Matthew Licht

camp cranium:erodoto

Siamo nell’Eden statunitense, nel territorio dei Quaker, degli Shaker e Amish. Bisogna formalmente rinunciare all’alcol, alle droghe e al sesso per accedere, ma ne vale la pena. Qui non sono in vigore le solite leggi biologiche. Qui l’amore prende il sopravvento persino alla gravità. Siamo in un campo estivo per ragazzi cerebrolesi.

Qui è normale essere in vari modi impediti. Per questi ragazzi, con cui la vita ha giocato pesante, passare parte dell’estate qui sarà come un visita in Israele per ebrei erranti, un viaggio attraverso l’Africa per afroamericani cresciuti in mezzo alla segregazione.

Ci si accorge dopo pochissimo che dopotutto sono ragazzi qualsiasi, ragazzi normali, che hanno avuto dei problemi di salute, che sono rimaste vittime della sempre possibile violenza della vita. La vita è in parte un aspettare che arrivino i colpi duri. Loro li hanno già presi. Per i giovani cerebrolesi, Camp Cranium è assolutamente la settimana più bella dell’anno. La gestione ha scelto come tema Le Fiabe. Qualcosa di fiabesco c’è già. Questo Eden è stato donato da cittadini qualsiasi, frutto del sogno di un veterano della seconda guerra mondiale, portato avanti da volontari. Per tutto il soggiorno, non ho sentito parlare di soldi. Viene da pensare che sarebbe possibile rinunciare anche al denaro.

Arrivano prima i counselor. Devono imparare in fretta a conoscerci, capire l’ethos del posto, memorizzare le nenie (che colpiscono nel profondo) da cantare attorno al fuoco. Ci dividiamo in gruppetti, a ognuno spetta un capannone. Per una settimana, vivremo e lavoreremo insieme. Il lavoro è intensivo.

Q. è un ragazzone biondo, dal sorriso ingenuo. Giocava a rugby, al liceo. Nella mischia, il suo migliore amico E. gli ha involontariamente dato una violenta gomitata alla medulla oblongata, causandogli una forte commozione cerebrale e un disastroso ictus. Q. affogava nel proprio sangue sul campo giochi. Lo salvarono. Q. venne al campo estivo per diversi anni come villeggiante. Il suo amico lo accompagnò e lo aiutò. Ora tornano tutti gli anni insieme come volontari.

Q. si alza in piedi davanti a tutti per raccontare la sua storia, e il suo amore per Camp Cranium. Mi sembra di essere a una riunione degli alcolisti anonimi, ma qui tutti sorridono. L’idea di passare una settimana senza nemmeno una goccia di birra non mi spaventa più.

L. sembra un giovane marines. Gli chiedo se gioca a football. Un po’ di calcio, dice, sorridendo astratto. Ora solleva pesi. Questa sua passione gli tornerà utile, a Camp Cranium. Gli toccherà spesso issare di peso i ragazzi immobilizzati.

R. è il leader del mio gruppo. Nero, nerboruto, un tipo tranquillo e di poche parole, occhi dolci, volto espressivo e leggermente triste. Se fosse stato il sergente del mio plotone in Vietnam, gli avrei obbedito ciecamente. Sta finendo i corsi da infermiere. Mi chiede se posso sopportare i ragazzi piagnoni. Gli rispondo subito: nessun problema.

Dobbiamo addobbare il nostro capannone. La direzione ci molla una cassa di figurine di cavalieri paciocconi e sorridenti, bandierine, scudi, spade, lance, tutto di plastica o di cartone. Saremo i cavalieri del castello. Nel capannone ci sono i letti a castello. Noi counselor dormiremo (poco) nelle brande di sopra, per ovvie ragioni. Mi arrivano ricordi atavici, di caserma, carcere e, appunto, di campo estivo. La prima notte, visto che non si può andare a bere, e che di trombare non è questione, vado a cuccia presto.

Arrivano i ragazzi. Una processione lenta, da incubo o fiaba contorta. I genitori vivono sommersi dalla roba che ci vuole per accudire i cerebrolesi. Quelli di M.—il padre è un senatore dello Stato di Pennsylvania—sono piegati da bauli impressionanti. Pannoloni, più che altro. Spiegano con grande pazienza la routine di manutenzione. Loro figlio non sopporta che gli si lavino i denti. Da solo non è capace, o non lo farebbe. Bisognerà forzarlo, un lavoro da due counselor, e non sarà piacevole. Buono a sapersi.

Alcuni dei ragazzi sembrano essere stati aggrediti da orsi. Hanno terribili cicatrici in mezzo alle folte chiome. Le colline in lontananza sono popolate anche da orsi bruni e neri. Tutto il territorio pullula di simpatici animaletti, uccelli vistosi.

Sono molte le sedie a rotelle, stile high-tech e vecchia scuola.

Genitori in partenza hanno l’aria felice, e allo stesso tempo un po’ vergognata, per la settimana di relativa libertà che gli si apre davanti.

Nel castello dei cavalieri, su 6 camper, solo uno può parlare normalmente, e due sono in sedia a rotelle. L. è stato investito da un guidatore ubriaco mentre aspettava lo scuolabus; oltre a essere cerebroleso è paraplegico. Quando venne la prima volta a Camp Cranium, non riusciva a parlare. Ora ci riesce, ma bisogna ascoltare attentamente, e portare pazienza. Lui ne ha a bizzeffe, ed è contento quando chi l’ascolta afferra i suoi concetti. Sorride, chiede la stretta di mano stile Soul Brother, o quel doppio schiaffo amichevole in aria: high five.

S. è praticamente il re di Camp Cranium. Ci viene da quando aveva 8 anni. Ora ne ha 13, ma è minuscolo. Soffre di idrocefalia, forse anche di acromegalia. Gli piace rubare le targhette coi nomi. Una ragione c’è.

Mi viene affidato N., un 12enne cicciottello dagli occhiali spessissimi, in sedia a rotelle, vecchio stile, ma non ci dovrà stare per sempre. Gli hanno operato i piedi. Soffre di qualche paralisi. Cardiopatico congenito, fu colpito da ictus durante un intervento al cuore. Per qualche lesione neurologico, o forse per via delle medicine, N. scoppia in lacrime nei momenti più strani. “Sono proprio felice,” dice, tra singhiozzi. “Mi sto divertendo un sacco.” Se fossimo in un campo estivo per ragazzi normali, N. diventerebbe presto un figuro come Piggy de “Il Signore delle mosche”. Qui invece ispira tenerezza in tutti, appunto perché piange, e vorrebbero consolarlo. Qui non esiste la competizione Darwiniana. Non ci si batte per attirare l’attenzione dei counselor, o per stabilire dominio tra camper. Non si scelgono subito i ragazzi più bravi e belli per formare squadre. Ci si incoraggia a vicenda, ci si saluta sempre, si ride. Tutti sorridono, e sembra maledettamente sincero.

Ho subìto anch’io un trauma cranico, a 12 anni. Fui investito mentre andavo in bici da un signore che non voleva perdere l’aereo. L’ha perso. Mi persi due mesi di prima media, ma mi è andata bene, credo.

C’è anche mio nipote, 20enne, la sua prima esperienza qui al campo. Pure lui, pressoché poppante, ha avuto un brutto incidente. Lo ha salvato un chirurgo abilissimo. Non rimane quasi segno. Mio fratello, suo padre, ha cambiato mestiere dopo la quasi-tragedia. Da biochimico è diventato neurologo pediatra.

Tanti debiti con la fortuna da ripagare, tanti traumi da sopportare, e superare.

Le giornate iniziano con le medicine. Le infermiere sono volontarie, anche il medico di bordo. C’è lo sportello drive-in per chi cammina bene e può prendere senza aiuto le pasticche, gli sciroppi. Chi ha bisogna di aiuto entra nell’infermeria, detta la Med Shed. Tutto molto conviviale. Poi si va nel refettorio per fare colazione.

Chi arriva a colazione senza la targhetta deve scrivere il proprio nome scuotendo per aria il culo. Tutti battono sui tavoli e urlano, “Spell your name with your butt!” I camper adorano che anche i counselor e gestori devono umiliarsi in modo amichevole e divertente.

S. sembra non stancarsene mai. Lo trovo a girellare per il capannone la mattina presto, quand mi alzo per stare una mezz’oretta in pace prima che incominci la giornata. Sembra un piccolo fantasma sorridente. Stare da solo in silenzio al buio non gli fa per nulla impressione.

Dopo la colazione si balla tutti insieme, per scaldare e sciogliere i muscoli per le attività della giornata.

Noto in particolare una ragazza alta, snella, dai tratti eleganti, nilotici, dall’aria melanconica. Si muove un po’ impacciata, usa a malapena il braccio sinistro. Non so cosa le sia successo, non voglio chiedere. Mi becca ad ammirarla, saluta piano. Le chiedo di leggerle nella mano. Mi porge la destra, naturalmente. Le dico, “Il peggio è passato. Da ora in poi avrai tanta buona fortuna.”

“Non mi sembra,” risponde.

Alcuni dei camper sembrano adulti tranquilli. Mi rendo conto che sono dei camper solo parlando con loro. L’unico indizio visuale che distingue i counselor dai camper più grandi è la maglietta bianca a maniche lunghe sui cui sta scritto, in belle lettere verdi, STAFF. Ce le hanno regalate all’arrivo. Le differenze non importano. Siamo qui. Io counselor per aiutare far divertire, tu camper per divertirti e stare tra amici.

W., un ragazzo del mio gruppo, sembra normale, a parte il braccio sinistro paralizzato. Ha lo sguardo particolarmente intelligente, da furbacchiotto. Gli chiedo quanti anni ha, e rimango stupito. Ne ha 13, ma ne dimostra 8, 9 al massimo. Il suo fisichino offeso non può sprecare energie sulla crescita. W. ha i capelli preternaturalmente folti, mi fanno invidia. L’orribile cicatrice ce l’ha al petto. Mi guarda triste, e parla sottovoce delle sua delusioni nella vita. Vorrebbe essere grande quanto gli altri ragazzi della sua classe, vorrebbe poter fare le cose che fanno loro, vorrebbe, insomma, essere normale. Gli chiedo, “Cosa preferiresti, essere per ora un po’ piccoletto, oppure…” Non mi fa finire la frase fatta. Risponde secco, “Opzione B.”

Si pranza e si cena sempre tutti insieme. Nel refettorio regna quell’atmosfera di carcere, caserma, scuola. Si rimane in gruppo. Ogni tribù di capannone ha il proprio tavolo. Il capo prende il cibo dalla cucina e noi subordinati lo distribuiamo. N., il ragazzo che mi è stato affidato, non ha problemi a mangiare. Noto che si quieta quando guarda le graziose counselor. Provo a spostare la sua carrozzella alla tavola delle camper adolescenti. Nessun problema. Non è obbligatorio stare con la propria tribù. Tutti si aiutano come meglio possono. Non ci sono regole, a parte quelle ideate sicuramente dalle aziende di assicurazione. Non dobbiamo, per esempio, stare soli coi camper quando devono andare in bagno. Ma basta chiedere compagnia al counselor più vicino. Non si dice mai di no. E se c’è qualche emergenza e te la devi spicciare da solo, chi ti denuncia?

Se dovessi definire l’essenza dell’esperienza Camp Cranium (che brutto nome, fa pensare alla Golgata, che fa pensare a Calcutta, Madre Teresa, ecc.), direi, pulire culi. Ma si fa sempre a tre. Diventa una storia tra amici, un rituale intimo e in fondo divertente.

Spesso, in mezzo alle attività festose, devo portare N. a fare una passeggiatina, per calmarlo. Non voglio che i suoi pianti guastino l’allegria degli altri ragazzi. Sicuramente è un problema mio. Gli altri camper sembrano non farci caso, semmai si avvicinano per consolare il loro amico. S. dalla testa deforme, che deve portare sempre l’elmetto di gommapiuma, da bravo castellano, mi chiede sempre, perché piange? Giriamo insieme tra i prati. Sono così belle queste colline verdi, non lontane dagli inferni terrestri dove si scava l’antracite, il carbone migliore del mondo, indispensabile per la produzione dell’acciaio.

Perché penso sempre alla violenza? Qui non c’è nemmeno l’ombra. Solo tanti magnifici alberi, i rami vibrano di uccelli colorati che cinguettano arcobaleni sonori, scoiattoli, marmotte, faine, cervi, daini. Colline serene, mucche, aria fresca. Tutto da rustica fiaba.

Stando sul tema di quest’anno, uno dei direttori ha organizzato una caccia al tesoro al negativo: i ragazzi devono cercare villani e cattivoni dalle fiabe, per metterli in carcere. Appende manifesti, combina scherzi, dà indizi. Per i ragazzi è una caccia seria, seppure divertente. Il male può essere una caricatura, da sconfiggere, allontanare, superare. Può succedere.

Li portiamo a pescare nel laghetto, a scalare su una falesia artificiale, di legno, in mezzo al bosco, attrezzato di una specie di ascensore per i ragazzi nelle sedie a rotelle. L., una ragazza colpita da ictus, paralizzata al lato sinistro, fa una scalata coraggiosissima. Non molla, proprio no. Lei è molto amica della ragazza alta, snella, melanconica, e di un’altra ragazza nera, paralizzata all’altro lato del corpo. Qui non esistono barriere, razze, colori, distinzioni tra chi è messo male e chi è messo peggio. I ragazzi sono felici di essere qui in mezzo al verde, di vedersi, salutarsi, frequentarsi, fare insieme cose insolite, divertenti. Si salutano con amore. Non ho visto neanche un’istanza di stizza, di litigio, di ingiustizia percepita. Solo N., il mio camper, piange. Lo fa vistosamente, delle vere crisi di tristezza esistenziale, urli di dolore galattico, per tutti i torti, le sofferenze, tutta la cieca violenza che c’è nel mondo. Ma poi, vedendo le belle ragazze, si placa. I ragazzi nelle sedie a rotelle si salutano con particolare calore. Si scambiano piccoli gesti di amore. L., il ragazzo più incasinato di tutti, nel mio gruppo, regala a N. una cosa per lui preziosissima: il braccialetto di suo padre, veterano della guerra nel Vietnam, per fargli coraggio.

Pure la bella H. è in sedia a rotelle. Ha le solite orribili cicatrici tra i capelli biondi, gli occhiali spessissimi, è cieca all’occhio destro, o forse non riesce ad aprirlo, ma il suo occhio sinistro blu brilla. Non può parlare. Sta incominciando a poter imparare il linguaggio dei gesti. A gesti non me la cavo molto bene. Quando vedo H. sono colpito forte. Che mi ricordi, dissi una volta a mia madre che l’amavo. Eravamo in una stazione dei treni, non credo che mi abbia sentito. Ho avuto problemi a dirlo alle donne della mia vita. Con H. mi viene spontaneo di farle quelle corna che per i sordomuti significano Ti amo. E lei mi sorride con tutta la faccia, la bocca spalancata, scuotendosi felice. Le vedo i dentini bianchi, la gola rosa, l’ugola. Non trattiene la sua gioia. Mi fa pensare ad un delfino, una di quelle creature ultra-vive, super-lisce ed eleganti che radiano potenza, grazia e intelligenza, ma non parlano il nostro linguaggio. Sarà perché non vogliono. Ci sarebbe telepatia tra delfini e ragazzi Down.

Trasformarsi in genitore non è proprio rilassante. Dà un’idea della forza che ci vuole, le preparazioni necessarie, per accudire un ragazzo colpito dall violenza della vita, del mondo. Quasi subito, divento sensibile, anzi iper-acuto ai suoni che produce N. Ha un senso dell’umorismo. A volte finge di piangere, ma lo fa in modo che mi renda conto che stia fingendo. Finge di dormire, a volte, ma è così teatrale che lo capisco subito. Quando lui si vomita addosso nel refettorio dopo aver mangiato 3, 4 porzioni di torta al cioccolato, le belle counselor corrono per dirmelo. Lo porto via per ripulirlo. N. non è capace di andare da solo al bagno, ma quando sente il bisogno, avverte. Una notte mi sveglia in mezzo a un sogno. Sento qualcuno dire che c’è una bella festa. Scatto in piedi quando mi rendo conto che invece è il “mio” camper che deve andare con urgenza nel cesso. Istinto materno latente?

La madre di L., il ragazzo paraplegico, ha fatto modificare il suo furgoncino per accomodare la complicata sedia a rotelle del figlio. L. guida la sua carrozzella quasi con spavalderia, ma anche con grande precisione. Sicuramente meglio del tipo che l’ha investito. Sento che L. ha un fratello gemello, che aspettava lo scuolabus con lui quel maledetto giorno, ma rimase illeso. Quando viene a riprendere il figlio, invita tutti a passare un fine settimana a casa sua. Che sogno.

Molti counselor intendono intrapprendere carriere in medicina. Aver fatto volontariato a Camp Cranium giova parecchio, secondo mio fratello neurologo, a chi vuole matricolare in una prestigiosa scuola di medicina. A volte si fa del bene per ottenere qualcosa di buono per sé, ma qui non vedo cinismo di alcun genere. Meglio, se aspiranti medici imparino empatia, amore, azzeramento dell’io.

Le volontarie sono parecchio più numerose che i volontari. Ci vorrebbero più counselor uomini, a Camp Cranium. Molti ragazzi che hanno subìto TBI (Traumatic Brain Injury) non possono venire a Camp Cranium perché manca il personale. Molte delle counselor hanno un’aria Lynchiana: sono così belle e buone che sembra impossibile che esistano davvero. Devono per forza avere un lato oscuro, celare un brutto segreto. E ti senti sporco perché lo pensi. Ti senti un mostro perché le guardi con un’ammirazione non proprio pura e casta.

Una di loro mi racconta del suo incidente. Non porta segni né cicatrici, non è impedita nei movimenti. La botta che ha preso in macchina era così violenta da strappare quasi tutti le assoni del suo sistema nervoso. Ha dovuto imparare tutto da capo. Soffre di forti emicranie.

Il tizio che l’ha colpita stava mandando un SMS mentre guidava. Stupidità e velocità significano tanta inutile violenza in più, al mondo.

Come sarebbe bello un mondo pieno di persone come quelle che popolano Camp Cranium. E come sarebbe ancora meglio se non ci dovesse mai andare nessuno.

Matthew Licht © 2014

matthewlicht87@gmail.com