Testo e foto di Giulia Usai

Prima di entrare in chiesa le donne georgiane si sfilano la sciarpa e la fanno calare sulla testa, ne avvolgono i lembi attorno al collo e sulla soglia compongono tre segni di croce. Poi varcano l’ingresso e si fanno strada nell’abbondanza quasi casuale dello spazio interno, dove domina la penombra e tremolano le fiamme di molte candele. Le osservo e ne seguo l’esempio.

Donne
Mi colpisce questa circolarità della pianta dell’edificio, la mancanza di convergenza verso un altare che si traduce in girotondo senza meta tra icone, lanterne e colonne. Per un attimo penso che tutta questa sfericità sacrifichi la discrezione della preghiera, ma noto che chi è in cerca di intimità posa la fronte sulle immagini sacre e si isola in una dimensione più distante, più eterea, sussurrando confidenze da affidare al silenzio divino.
Mi sposto nell’ambiente chiuso, focalizzo altri dettagli. Attorno ai candelabri si riuniscono stuoli di persone che, dopo aver inclinato lo stoppino verso le vampate tremolanti per accendere la propria candela, passano alcuni minuti in contemplazione dei bastoncini brucianti, lo sguardo assorto. Pensano, supplicano, aspettano, chissà cosa. Mi incanto a esaminarli e nemmeno se ne accorgono.
Da una porta secondaria esce un prete con una tonaca lunga e nera, un copricapo e un crocifisso massiccio al collo. Va verso l’ambone, apre la pagina distinta da un segnalibro e si schiarisce la voce. Mentre il motivo sacro si diffonde nello spazio chiuso e i suoni turbinano in direzione della volta, come spirali di fumo, alcuni fedeli si uniscono al religioso – che dà loro le spalle – per cantare con lui.
Fuori è buio, la temperatura è sotto lo zero. Una mendicante soffia sui palmi per riscaldarli e poi mi mostra un sorriso sdentato.

candela