Testo e foto di Giulia Usai/

L’autobus procede per un rettilineo dissestato lungo la strada che da Jaffna porta a Mannar, mentre le imponenti casse acustiche montate sulle cappelliere diffondono a volume altissimo una canzone tamil e l’autista beve lunghe sorsate di gin dalla bottiglia sistemata accanto al volante. Tra il dondolio di valigie e passeggeri, sul cruscotto spiccano ben salde le statue di Buddha, Ganesh e Gesù Cristo dotate di aureole a luce intermittente, che impartiscono benedizioni al neon dal gusto sfacciatamente kitsch senza pretese di monopolio religioso.
È quasi mezzogiorno, il sole batte sulla tettoia in lamiera del vecchio autobus e l’abitacolo è una fornace. Tocco la nuca bagnata di sudore e mi affaccio al finestrino: cerco di distinguere i contorni delle cose, ma la definizione del paesaggio manca di nitidezza a causa dell’afa. Ogni tanto sull’asfalto noto pozze d’acqua illusorie, miraggi beffardi che si prendono gioco dei viaggiatori e danno una dimensione di assurdità a questa arsura. Quant’è diverso il Nord dal resto dello Sri Lanka: una distesa arida e piatta in contrasto con la giungla lussureggiante che soffoca le altre parti dell’isola, un enorme spazio aperto di essenzialità monastica. La guerra civile è un ricordo recente che tiene lontani i turisti, e io, apparizione esotica in terra tamil, attiro tanti sguardi. Il conflitto ha lasciato in eredità fantasmi: muri crivellati dai proiettili, case abbandonate per la diaspora, campi circondati dal filo spinato dove cartelli sbrindellati annunciano la possibile presenza di mine antiuomo. Le immagini mi passano davanti in istantanea ma le recepisco ovattate, la temperatura infernale crea una distanza tra me e le sensazioni. Le devo conservare incartate, per rielaborarle in un altro momento.

@giuliausai

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D’improvviso, il conducente rallenta la sua corsa forsennata con una frenata stridente che culmina in un gemito prolungato di ferraglia. Mi reggo forte al sedile e volto la testa a sinistra, verso l’ostacolo ingombrante che occupa la carreggiata: una gru generosamente addobbata con fiori, seguita da un corteo di persone. L’autista si sposta verso destra per un sorpasso discreto, e la scena che mi si para davanti carica di ancora più insensatezza le impressioni di questa mattina tropicale. Dalla gru pende un uomo in posizione parallela al terreno, sospeso per mezzo di uncini che gli perforano la schiena, e scuote la braccia con foga, a imitare il volo di un uccello. La pelle è sudata ma non sanguina, gli occhi sono vuoti, assenti, come in trance. Tutt’attorno, le persone cantano, suonano e ballano sui ritmi della musica carnatica, indifferenti alla calura e al traffico che sfreccia loro accanto. Avanzano seguendo proprie regole, nel rispetto di una lentezza mistica e antica.
L’autobus riprende la sua corsa e cerco di sporgere il più possibile il busto dal finestrino, nell’accorato tentativo di cogliere gli ultimi istanti di quella visione che sa quasi di abbaglio. Ma la nebbia che sbiadisce tutti i dettagli inghiotte l’intero spaccato e l’udito afferra solo le ultime note del motivo religioso sempre più flebile in lontananza. Mi siedo sul sedile con rassegnazione, e asciugo la fronte umida rassicurata al pensiero che fra pochi giorni arriveranno i monsoni, la pioggia placherà la calura e scioglierà la foschia di questa dimensione onirica.

 

@giuliausai

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