Testo di  Claudio Simbolotti, Foto di Giuliano Guida

Lo scorso giugno io, Giuliano e Paolo a bordo della mitica Carolina, una fiat 500 di quasi cinquant’anni, abbiamo scorrazzato lungo strade secondarie e marginali, provinciali percorse da qualche sparuto motociclista, alla scoperta di luoghi dimenticati ed incantati dell’Appennino centrale. Un viaggio con un mezzo a motore ma di quelli di una volta, che ti costringe ad un’andatura lenta, che ti fa godere del panorama e respirare gli odori dell’ambiente ma anche i fumi della benzina, che ti fa sentire sulla pelle, in tutti i sensi, i chilometri percorsi. Minuscoli paesi che sopravvivono, a fatica purtroppo, al costante spopolamento ed abbandono, che resistono fieramente con orgoglio e difficoltà ad una fuga verso le metropoli, che non si arrendono ed anzi indicano una direzione nel recupero delle tradizioni e dello sviluppo locale.

Posti incantevoli, spesso di una bellezza che ci ha lasciato senza fiato, panorami fiabeschi fra le alte e selvagge cime, borghi centenari recuperati o mantenuti in buono stato, gente tosta e cordiale.

Paesini fantasmi “congelati” al momento della fuga, in cui sembra ancora di rivivere nel passato e sentire le genti parlare, dove la vegetazione ha ripreso il suo inesauribile corso, sintomo che la vita deve andare avanti.

Undici giorni, cinque regioni, 1815 km con una media di 165 km percorsi al giorno ed una velocità media di circa 17 km/h pause incluse, in mezzo a tutto questo le storie di uomini e donne che con semplicità cercano di vivere e far vivere le loro terre.

Lasciamo nella prima mattinata, evitando così l’usuale traffico, la capitale. La via Salaria ci porta in direzione nord-est, ma già dopo pochi chilometri sulla consolare siamo in cerca di strade secondarie, sono troppe le auto che incrociamo. Ci infiliamo così fra i monti della Sabina e finalmente il viaggio sembra iniziare davvero. Le prime soste, nei piccoli paesini di Torricella Sabina e nella medievale Rocca Sinibalda dominata per l’appunto dal suggestivo castello del X secolo, e le poche battute scambiate con una barista e con la fornaia, ci fanno già intendere che siamo in un altro mondo, distante anni luce dalla metropoli. Proseguiamo su una provinciale di cui siamo gli unici frequentatori ammirando il rigoglioso verde dei monti interrotto solamente dal giallo intenso di alcuni fiori di cui cerchiamo invano di riconoscere il nome.

Marcetelli è la prima meta della giornata, minuscolo centro di impianto medievale che domina l’intera Valle del Salto da una posizione a precipizio su uno sperone roccioso. Circa 80 anime che lo fanno essere il più piccolo comune del Lazio e fra i minori d’Italia. Carolina resta a riposo nel parcheggio e noi vagabondiamo a piedi per i suoi vicoletti. Non fatichiamo a comprenderne il primato, nonostante i fiori addobbino le case e sia tutto ben curato, non incrociamo persona ne tanto meno un’attività aperta. Sconsolati ritorniamo verso il nostro bolide ma una figura si para innanzi a noi, è un ragazzo, l’idraulico che viene però da Rieti e che ci confessa che quando si reca qua è sempre da solo.

Ripartiamo su una strada sconnessa con alcune frane, poi si apre quasi all’improvviso il Lago del Salto, una visione suggestiva in un silenzio surreale, sulle sua acque limpide il sole riflette gli abitati circostanti offrendo così una soave delizia per i nostri occhi. Sostiamo lungamente sul ponte che lo attraversa senza che nessun altro circoli nei dintorni, poi un rumore assordante, un rimbombo ed ecco comparire un motorino, uno di quelli stile anni ‘80, tipo il “SI” per chi se lo ricorda, che come un’apparizione ci supera con la sua lenta e rumorosa andature per poi sparire e lasciarci di nuovo nella quiete incontaminata.

Ci ricongiungiamo con la Salaria e di nuovo l’andirivieni di veicoli ci spazientisce un po’, siamo solo al primo giorno ma già ci siamo abituati ad essere i protagonisti della strada. Entriamo ad Antrodoco per concedere la necessaria tregua a Carolina, che ormai sta macinando chilometri dall’alba, e rifocillarci al bar della piazza. Come dice lo stesso nome, “in mezzo ai monti”, la cittadina è circondata da tre catene montuose che offrono una entusiasmante visione. La vivace, loquace e prorompente barista ci racconta che sono sempre meno gli abitanti scesi ormai a circa 2.500, che di turisti non se ne vedono e tra l’altro non ci sono neanche strutture ricettive, ci parla poi del parco delle terme che una volta funzionava ospitando oltre le terme stesse, un bar ed una sala da ballo, e che rappresentava comunque un’attrattiva per l’intera zona.

Carolina non ci delude, sale come un mulo gli aspri pendii che ci conducono a Micigliano, altro piccolissimo borgo. Dopo la visita di rito al centro storico è d’obbligo la pausa al bar del paese. Cartelli vendesi decorano le pareti, sorseggiamo un aperitivo, la nostra presenza di forestieri incuriosisce i soliti avventori che non tardano ad attacar bottone. Sono 5-6 e fra una briscola ed uno sfottò ci raccontano che ormai sono pochissimi gli abitanti rimasti, quasi tutti anziani e pensionati, che anche i cinghiali che popolavano ampiamente la zona se ne sono andati via, poi ci sconsigliano di proseguire, più su con il nostro macinino non possiamo andare, si va al Terminillo e la strada è completamente sterrata e percorribile solo con un 4×4.

Te ne accorgi subito che sei già in terra d’Abruzzo, tutto questo territorio infatti fino a 90 anni fa apparteneva a quella regione, fu con il solito colpo di gomma sulle carte geografiche che fu accorpato alla provincia di Rieti. Al benzinaio il tipo fermo vicino a noi, ci chiede l’anno e il modello della nostra cinquecento, da dove siamo partiti e dove siamo diretti, Carolina gongola, come ogni donna, ai primi espliciti complimenti, ci aveva notato già sulla strada avendoci sorpassato e ci saluta facendoci i complimenti e gli auguri per il nostro viaggio.

Il sole ormai sta calando e sono passate circa 12 ore dalla partenza, l’avvicinarsi di Leonessa ci convince a mettere il punto alla tappa. Bel borgo medievale, detto delle chiese e dei bar vista la notevole presenza di entrambi, oggi conta, con tutte le 44 frazioni, solamente un migliaio di anime che fino ad una trentina di anni prima erano quattro volte tanti. Una grande fabbrica di legno dava infatti lavoro ad oltre cinquecento operai. E’ Romolo, oste di chiacchiera e simpatia, a raccontarci un po’ di storia oltre a farci gustare un’ottima ed abbondante cucina casareccia. Pochi i turisti e solo ad agosto si vede un po’ di gente, purtroppo nel territorio non si investe nonostante il fascino che trasmette codesto luogo.