Radici e ali di un uomo nato per correre

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Diego Cupolo è nato a Città del Messico, e dopo qualche anno ha seguito la sua famiglia in Venezuela, dove è venuto al mondo il fratello minore Francesco.

Forse ne scrivo perché all’età di otto anni si è trasferito con tutta la famiglia nel ricco e wasp Connecticut. Oppure narro la storia di Diego Cupolo quale possibile soluzione ai problemi generazionali di un’Italia vecchia e spenta che non sa più sognare, in cui le agiate classi dirigenti usano termini come “bamboccioni” e “choosy”, dopo che per anni hanno contribuito a farci gelare il sangue nelle vene con le loro lungimiranti ricette da importazione.

Questo ragazzo a noi può insegnare il valore dello stare al mondo senza fermarsi ad aspettare.

Figlio di due professori universitari italiani di Avellino, Diego ha conseguito una laurea in giornalismo alla University of Connecticut per raccontare ciò che osserva, che ritiene degno di essere condiviso. Dopodiché si è trasferito a Brooklyn, New York, e qualche tempo dopo ha coronato l’aspirazione giornalistica entrando nella redazione di uno dei quindici giornali più grandi d’America: “The Star-Ledger”. Fin qui il sogno americano è riuscito e non avremmo saputo immaginare di meglio.

Quindi la crisi economica, le dimissioni dal giornale in cui i margini di libertà professionale erano dettati dagli interessi dell’azienda, e la scelta di raccontare il mondo non più da una comoda scrivania in un ufficio di Newark, nel New Jersey springsteeniano, bensì dopo averlo vissuto e scrutato intensamente.

Perche viaggio? Perche ho i piedi, mi risponde. A differenza di molti umani che hanno vissuto nel passato, oggi ho la capacità di muovermi in questo mondo e cercare di capirlo. Solo dopo posso provare a spiegare che cavolo succede davvero. Qualunque giornalista o scrittore che non cerca queste esperienze non è interessato a scrivere del mondo, è  interessato a scrivere di se stesso.

Nel suo viaggio in Sudamerica ha visitato Nicaragua, Costa Rica, Panama, Colombia, Ecuador, Peru, Bolivia, Chile e Argentina durante un periodo di un anno e mezzo. In altri viaggi nella natia America Latina ha anche visitato Mexico, Guatemala, Belize, Venezuela e Puerto Rico.

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Lo ha fatto prevalentemente in autostop, senza denaro che non provenisse dal proprio sudore, guadagnando la fiducia dei suoi interlocutori, accettando ospitalità in cambio del suo lavoro: capraio in Nicaragua, venditore di arepas (cibo venezuelano) a Panama City, receptionist a Medellin, piantatore di caffè in Ecuador, alternando a queste attività di sussistenza il suo quotidiano e metodico lavoro di freelance e fotoreporter. Allo stesso modo è approdato in Italia dopo mesi sul confine tra Turchia e Siria, in mezzo ai profughi, ad insegnare ai bambini per una onlus e continuare a raccontare.

E’ difficile dire quali siano le radici di Diego, si definisce un miscuglio. In uno zaino ha tutto il necessario: tenda, coperta termica, coltello, pc, fotocamera, e soprattutto pochissime esigenze. Porta i capelli e la barba lunghi da quando il suo rasoio cinese lo ha mollato.

Cammina ore ed ore senza fiatare, ha un corpo pronto ad assecondare i suoi progetti, un corpo che serve per ciò che si propone di fare. Ad esso affianca il suo sguardo: attento alle parole come ai gesti, sa osservare, ascoltare, non è attratto dalle vetrine dei negozi, si percepisce che la sua vita avviene fuori dalla tremenda giostra delle nostre strade e città. I suoi progetti, le sue priorità lo rendono vivo, la sua curiosità muove chi gli sta accanto a sostenerlo. Ciò vale anche per la sua ragazza che, quando non lo accompagna, studia relazioni internazionali a Montreal, in Canada.

Non so come finirà la storia di Diego, quello che del suo incedere mi convince però, è che in qualsiasi momento la sua avventura finisca, credo non avrà molti rimpianti.

Sono sicuro che con pochi alibi, avrà sempre il coraggio di affrontare ciò che lo aspetta.

Mi chiedo perché scrivo di Diego Cupolo e la risposta è che questo ragazzo all’incirca trentenne non si fa schiacciare dal peso costante della vita e da quello ipocrita della società. Non è disposto a soccombere così facilmente ai criteri di quella parte imperante del nostro mondo bigotto, autoreferenziale, e forse, se e quando lo farà, potrà comunque dire di averci provato intensamente.

Per essere ciò che si vuole non occorre che qualcuno apra delle porte per noi, puoi prendere quella benedetta maniglia e buttare giù tutto. Per essere un giornalista non occorre un contratto a tempo indeterminato, nemmeno uno stipendio, si può sopravvivere d’altro e non rinunciare a se stessi, nessuno potrà mai dire che non siamo ciò che amiamo, ciò che incarniamo.

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Diego non crede al suo televisore, lo ha ucciso da tempo. Vive per l’oggi. Per il futuro che è adesso, mi dice, e dipende in misura preponderante da noi, dalle nostre capacità e dalla costante determinazione.

Non so se farà mai più il lavoro di giornalista per una grande corporazione, quello che vedo è che oggi, anche senza contratto, a dispetto di chiunque, Diego è un uomo consapevole del proprio tempo, e un giornalista vero. Non fermarti…continua a correre!

Sandro Supplentuccio Abruzzese

Sandroabruzzese78@gmail.com

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Per chi vuole conoscere il lavoro di Diego Cupolo:

http://diegocupolo.com

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