Foto e testo di Laura Torsellini. 

Se nel corso di un’escursione naturalistica i paesaggi costituiscono lo sfondo alle nostre sensazioni ed esperienze personali, sul vulcano Etna le prospettive si ribaltano completamente. In questa avventura fotografica firmata Laura Torsellini non c’è spazio per pensare alla propria condizione di “viaggiatori”, si può solo rimanere in silenzio ed ammirare una meraviglia della natura in tutto il suo (inquietante) splendore. L’Etna, descritto, esplorato e soprattutto temuto sin dall’antichità si svela in queste immagini mozzafiato nei contrasti cromatici della sedimentazioni geologiche in continuo rinnovo, come un eterno percorso karmico. Perché sull’Etna la morte e la vita si riciclano continuamente. E ci ricordano, con la semplicità in-naturale dell’imponente silhouette scura del vulcano, la nostra condizione di semplici “turisti” su questo straordinario pianeta chiamato “Terra”.

Salendo sul più grande vulcano emerso d’Europa può capitare di trovare i crateri sommitali che fumano ancora su un cielo blu cobalto, odorare vicino solo il fumo sulfureo di un vecchio cratere cheancora dà segni di inquietudine e scoprire una bellezza strana, quasi extraterrestre, che non hai visto che qui.

Oppure puoi arrampicarti verso i crateri sommitali che lentamente si avvolgono nelle nuvole, arrivare in cima e ritrovarti in un posto che non puoi che definire “epico”, con strati di zolfo che colorano la cenere e la lava solidificata, con i vapori sulfurei che ti costringono a respirare dietro a un fazzoletto bagnato e scoprono, a tratti, il grande cratere, la voragine dell’Etna.

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In mezzo ai fumi, su una terra che trema e brontola e ti scalda fino alle ginocchia, (anche se sei a più di 3000 mt), ascolti la guida che ti racconta dei capricci del vulcano, di come sia traditore il grande cratere, di come si sia ingoiato delle vite e di come nei giorni di sole e vento da qui si vedano tutta quella Sicilia fino al mare di Agrigento e il continente.

Dopo aver radunato il gruppo la guida ci chiede di fare una cosa folle: è tardi, le nubi si stanno chiudendo, e bisogna scendere di corsa… dobbiamo lanciarci giù da una parete di cenere ripida come una discesa di sci sulle Dolomiti. Sei perplesso, poi ti butti e ti trovi a rimbalzare, quasi senza peso, in una cenere fina e leggera come neve fresca e ti scopri a ridere come un bambino al luna park, e non riesci a smettere nemmeno quando torni a quota 2900 e alla capanna delle guide. Allora ti volti e vedi il gruppo dietro di te che fa la stessa cosa inseguito dalla grandine che ha già imbiancato la voragine che, per stavolta, ti ha lasciato andare.

Avremmo dovuto fare a piedi il giro dei vecchi crateri, ma grandine e pioggia ci costringono a ridiscendere coi pullmini 4×4, poi però il cielo smette di piangere e allora si ricomincia la discesa a piedi, in fila indiana dietro la guida, tutti vicini perché le nubi passano ancora bassissime e qui devi stare attentissimo a seguire il sentiero perché intorno a te ci sono le mille insidie di una montagna che è viva.

Per convincerti a non perdere tempo e a rimanere sulla sicura scia del gruppo la guida ci fa affacciare ad un balcone sulla Valle del Bove che si spalanca per quasi 1km di altezza, e assaporare le nuvole che da laggiù ti corrono incontro arrampicandosi sulle pareti di lava rossa e nera.

È una presenza che senti costante quando lasci le tue impronte su quelle di chi ti cammina davanti, e non puoi fare a meno di girarti e controllare di non esserti avvicinato troppo (e a rubare una foto).

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La montagna ruggente e aspra si allontana, avvolta in uno scialle bianco di grandine, mentre si scende delicatamente, ma costantemente verso i 1919 mt del Rifugio Sapienza attraversando un deserto di cenere, che è senza tempo e al di là dello spazio, un pianeta “altro” spoglio, ma che ancora ogni tanto trema per ricordarti che sotto di te ci sono fuoco e fiamme, la forza primigenia della crosta terrestre.

Sotto di te lentamente si spalanca un panorama striato di verde e di giallo, le prime tracce di vita vegetale e, più lontani, i vigneti delle basse falde dell’Etna, perché, come la morte, la montagna che fuma regala anche la vita. E scendi ancora, tra piccole isole verdi, in una cenere che si è fatta dura e aspra per contendere lo spazio alla vita vegetale. Sei al confine tra due mondi, mentre passi accanto ai crateri di eruzioni di due secoli fa.

E i tuoi occhi che si erano saturati di tutte le possibili sfumature di grigio vengono ora punti dalle macchie di colore che spiccano ora fitte tra la lava e la cenere:  le coraggiose piante pioniere, che riconquistano ogni volta le pendici della montagna, in conche e baie, come le onde su un bagnasciuga. Confine labile e mutevole col mondo del silenzio e della monocromia.

Ti volti indietro e alle tue spalle c’è un pezzetto di Marte, sceso qui a testimoniarti quanto sei piccolo nell’universo, a confronto con le forze che da millenni si confrontano su queste pendici scabre.

Una montagna che vive e che, ogni volta, rinnova sé stessa e le esistenze di quegli organismi che vivono in simbiosi con lei. Tutte le teorie degli ecosistemi ti tornano in mente, le ricordi ancora dai libri di scuola e qui le vedi applicate all’aria fresca che respiri, alla terra che calpesti, ai fiori colorati di cui invano cerchi un profumo.

E hai la certezza, che anche dove tutto sembra cenere e deserto, un giorno fiorirà di nuovo la vita.

Foto e testo di Laura Torsellini | Presentazione a cura di Marco Turini