Testo e foto di Sabrina Maio
La strada è la E 60. Seguo le mappe. Le preferisco ai sicuri congegni elettronici. Una mappa racconta. C’è la storia di una montagna, di una pianura sconfinata, di una strada che non può non avere un percorso diverso per rispetto a vecchie mulattiere ed a vecchi confini. La ruta che seguo è quella che da Brasov arriva a Sighisoara, nel cuore della Transilvania, terra di mistici monasteri e fortezze arroccate. Gli scenari che incontro sono diversi e mutevoli. Basse colline brulle con macchie di greggi che si confondono con le pietre e campi sterminati di girasoli che mi volgono le spalle. Oppure m’ imbatto in alte montagne verdi, che ricordano cattedrali con alti alberi scultorei, con la strada che vi serpeggia sinuosamente all’interno. L’insolito nei villaggi qui è che, avvicinandosi, si scorgono solo i grossi tetti spioventi che sembrano toccare terra, ed è solo attraversandoli che si possono ammirare le abitazioni nei loro colori variopinti e con i fregi lungo le mura. Tutti, anche i più semplici hanno un’ imponente chiesa ortodossa, spesso con pacchiane cupole argentate. Ma non manca mai l’angolo di poesia. Ed in Romania, come in molti paesi dell’Est, la trovi inaspettatamente nei cimiteri che, in una piccola miriade, sparpagliati tra le zolle di terra che sovrastano le lapidi, raccontano della morte in chiave estremamente domestica. I morti soavemente accanto ai vivi.

Le rute in Romania,che ancora conosce poco le strade ad alta velocità, sono estremamente affascinanti perché sono veri e propri vissuti di vita. Ci si imbatte continuamente in carretti con intere famiglie a bordo e contenitori di latte, ed in venditori per strada di cestini di more e lamponi. Ai bordi delle strade donne con gonnelloni lunghi colorati,abbinati ad altrettanto vivaci foulards sul capo, vendono e mi indicano il loro miele e le loro marmellate. Tante le vite in attesa in un tempo fermo che, qui più che altrove, non ha perimetri. In ogni villaggio che attraverso i bimbi vanno su e giù in bici sul ciglio della strada e le donne con le sporte della spesa rincasano. I campi sono maestosi e quasi sempre deserti, pascoli di cicogne e corvi neri. Nelle fosse delle cunette qualche rom si è fermato col carretto e falcia l erba o spacca pietre.


Ed è solo per caso che leggo un’insegna consunta che indica un borgo non segnalato sul mio percorso. Sono a Maiures. La strada è su un piano rialzato e distante da esso. Lo sguardo ci cade con distrazione ma il richiamo è forte ed inaspettato. È un luogo estremo e di risposte. Si scorge uno scheletro di case dal colore spento con tetti di lamiere e dall’aspetto molto dimesso. Si intuisce che accoglie un’umanità essenziale che vive al confine. La stradina laterale che mi ci conduce è sterrata, ai lati casette dai tanti colori con il prato e qualche mucca. Il vero centro è un agglomerato di case che ruotano attorno ad una piccola chiesa dal campanile alto e sproporzionato. Mi accoglie un gruppo di donne molto vivaci che si prestano allegramente a farsi fotografare ed a chiacchierare in un improvvisato italiano, forse attendono qualcosa da me ma non chiedono. I bimbi no, sono piu smaliziati e diretti. Alcuni giocano a forzare un bancomat, unico avamposto di un mondo moderno che qui è lontano ma di cui loro ne hanno subito il falso influsso. Gironzolo tra le viuzze, osservata ed osservando uomini che attraversano la mattinata davanti a dei chioschi provvisori giocando a carte e bevendo birra.

Più in là un uomo sistema il proprio figlioletto ed attrezzi di lavoro su un carro trainato da un cavallo, lui schiva infastidito il mio sguardo e si dirige verso i campi. In lontananza intravedo incuriosita delle case con la sola ossatura di legno a croce al piano alto, non hanno pareti esterne ma solo paglia ammucchiata. Forse sono dei fienili rialzati e protetti. Ritorno indietro attratta inspiegabilmente dalla scheletrica vita di questo posto, scorgo un emporio ed una bimba seduta sui gradini all’ingresso che mi sorride, mangiando popcorn. Era dagli anni dell’infanzia che non entravo in posto cosi. Era un bazar di cose, un mondo fatto di oggetti e cibo necessari alla vita del villaggio, messi insieme alla rinfusa. Come un Alice nel paese delle meraviglie sono rientrata in un luogo del mio passato ed ho trovato le mie risposte. Emozionata con gesti ed in un linguaggio incomprensibile ho chiesto e cercato il quaderno a righe, che ricordasse il più possibile quelli che acquistavo da bambina ai primi anni di scuola. Per il resto del viaggio ho abbandonato tablet o smartphone su cui scrivere. Ed è ancora ora che qui, su questo semplice quaderno a righe, che sto scrivendo e raccontando il viaggio.