Testo e foto di Sabrina Maio

Una cartolina si invia da un luogo, racconta ciò che si vede. Non accade sempre cosi però, di inviarla nell’immediato, come un intervento a cuore aperto. Accade di ritornare da un paese ed avere dentro di sé qualcosa d’insoluto, di irrisolto. Non come le altre volte che attraversi un’intero Paese ed empaticamente lo cogli come un fiore già dischiuso.

 Con il Vietnam non è stato cosi. L’ ho attraversato dal sud di Saigon e del Delta del Mekong. Sono passata per la contraddittoria e maestosa città imperiale di Hue, accerchiata nella sua cornice di modernità, fatta di cavi elettrici e smog di ogni tipo. Ho ammirato quel luogo fermo nell’incanto che è la città di Hoi An, un ricordo di musica dolce e lampade colorate accese lungo il silente Fiume della Nostalgia. Alla fine del viaggio mi attendeva Hanoi, nella sua veste di capitale e centro propulsivo del selvaggio e verdeggiante Vietnam del Nord. Ed ancora non si dipanava la matassa della comprensione. La verità è che il disvelamento è avvenuto solo a distanza nel tempo e forse solo grazie alla città di Hanoi.

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Hanoi è una città di sintesi. Di tutto. Di umanità. Densa nel suo magnetismo, come lo sanno essere le città fatte di milioni di corpi che si sovrappongono nella ricerca spietata di sopravvivenza. Pensavo continuamente a Levi, al suo arrivo in India ed alle sue prime impressioni.  Entrare, infatti, nel ventre molle di Hanoi desta inizialmente sgomento, ma è uno sgomento che attira ed eccita, ci si riconosce. E’ viscerale. Il mondo che ci si para davanti agli occhi, che ci preme, turbina col peso di un’infinita presenza, non è un mondo diverso. E’ il nostro mondo nella nostra antichità e nella nostra attualità.

Hanoi è gli svariati odori, del rancido degli unti delle cucine all’aperto, delle spezie e dei tè in vendita, delle carni dei più svariati animali macellati ed esposti alle intemperie ed agli insetti, delle verdure vendute dalle bici da donne nascoste sotto mascherine e cappelli conici, dei gas degli infiniti mezzi in circolazione. Hanoi è il canto del gallo che riesci a sentire solo prima dell’alba nel silenzio degli insonni.

I milioni di motorini e di gente in circolazione mi facevano pensare i primi giorni a tanti moscerini ronzanti. Non è così, i vietnamiti sono formiche, non solo per l’estrema laboriosità ma anche per l’inusitata capacità di stare insieme in tanti e nel medesimo luogo. E come tante formiche vanno tutti velocemente senza mai sfiorarsi o indugiare anche per poco, come nella nostra migliore tradizione mediterranea. Tutti hanno l’impressione sul volto della certezza di un senso, mai ombre di perplessità, ognuno nella sua precisa collocazione e destinazione.

Addentrarsi per le stradine del cuore storico di Hanoi, distinte nelle sue 35 corporazioni di arti e mestieri, è come essere l’eroe di un videogame. Tanti gli ostacoli ed i nemici da superare per procedere ed avanzare di livello, dai mezzi rotanti alle bici-bancarelle, dalle persone assiepate sugli sgabellini in attesa di una zuppa di noodles ai richiami delle donne in strada per vendere le loro sete. Tra un emporio ed un altro ogni tanto appare un cunicolo, un antro da cui spuntano persone. Lì comprendi che si svolge quel poco di vita residua ed immobile di un vietnamita, la dimensione intima di un fragile riposo notturno su una stuoia e di una silenziosa cura personale. Il resto è un brulichio impressionante. Il videogame non ha un esito finale, non finisce mai. C’è una forza più grande che chiama, si è stanchi e provati dai tanti input ma si è come in una rete. Uscire dal cuore pulsante di questa città si avverte e, stranamente, ritornarci è rassicurante. Lo riconosci appena dalle grandi arterie che circondano la città, entri quasi di soppiatto in una stradina più stretta, e rivedi le case tubo lunghe e strette con forti tracce del passato coloniale francese, collegate da migliaia di cavi elettrici che le tengono come strette l’una all’altra, da una parte all’altra della strada. Il susseguirsi di mille negozi ed attività di ogni sorta, le insegne di co e pho davanti ad enormi pentoloni fumanti che traboccano di zuppe e sovrastano sgabelli mignon colorati, invitano.

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In fondo è un sottosopra ordinato, un modo di vivere di un popolo che conosce poco la dimensione individualista, che di essa pare ne misconosca l’aspetto più sensuale, se non per ritrovarlo nella pronunciata grazia di tutti. E’ vita di cooperativa, si sta insieme in modo uguale, come i tanti alunni in divisa di cui sentivo il coro inneggiante a fine giornata. Il richiamo alla comunità compare ovunque, dalla città alla campagna più sperduta, con l’effigie gigante su campo rosso di Ho Chi Minh, il padre della patria, l’uomo sobrio, affiancato dall’immagine dell’operaio e della maestra.  

 Per il resto il Vietnam è un paese dalla natura rigogliosa ed orgogliosa. La folta vegetazione è predominante, copre tutto perfino gli enormi crateri lasciati dalle bombe, si sofferma domata solo ai margini delle innumerevoli risaie di cui il paese si fa dono. Le risaie restano indubbiamente l’immagine più dolce di questo paese. Il Vietnam è acqua. Trae nutrimento e ricchezza da essa. L’acqua è ovunque, nell’immenso Mekong, nel fango dopo le piogge torrenziali, nell’aria umida costante. E nelle risaie l’acqua si sposa con la terra, un vero matrimonio prolifico. I vietnamiti lo sanno e come veri sacerdoti ne curano il rito sotto un cielo silenzioso a testa china come tanti aironi nelle lagune. Il vietnamita è questo, un uomo di villaggio, un sacerdote della natura. E lo è ovunque, sia che viva in un villaggio, ai margini di strade che non conoscono asfalti, sia che si sia spostato nella grande città. Non si può comprendere profondamente questo popolo se non si fanno i conti con la sua natura contadina che si tramanda per alcuni valori anche ai figli ormai inurbati. I mercati di Hanoi e la vita fatta ai bordi delle strade, tra galline ed altri animali liberamente circolanti ed ogni forma di attività domestica sempre condivisa in tanti, ricordano la vita e la voglia di villaggio. E’ la vita del villaggio abbandonato per la città che si perpetua nella coralità e nella collettività. E del villaggio hanno conservato il cuore semplice che ha resistito alle tante guerre e violenze imposte. Ne è stato lo scudo riparatore e l’arma segreta. Alla fine ho compreso. Bisogna solo conoscere questo tipo di Resistenza infinitamente semplice nella Storia e nell’animo di un vietnamita per poter capire.