Testo e foto di Isabella Mancini

E’ il più grande lago del Sudest asiatico. Un elemento indispensabile all’equilibrio naturale della Cambogia dichiarato “riserva della biosfera” dall’Unesco nel 1997. Il lago Tonlé Sap ha due vite: quella del periodo delle piogge e quella del periodo secco. Durante la stagione dei monsoni il Mekong risale verso il lago e ne aumenta la portata. L’acqua sale e le palafitte, che compongono le abitazioni dei villaggi che si affacciano sul lago, sembrano meno gamberi dalle lunghe gambe secche. Un ora di tuk tuk da Siem Reap per raggiungere Kâmpóng Khleang, un ora di campi, ancora campi e campi. Un unica strada dritta sulla quale si affacciano casupole di paglia, anche qui palafitte ma senza acqua, un’unica grande stanza sopra e sotto gli animali da cortile, polli, galli e galline, e mucche, bianche, secche. La terra è rossa, secca, finissima, vola ad ogni passaggio, alta e sottile, copre le persone, le piante, le cose. I camion corrono sorpassando mezzi agricoli, motori, fuori strada. A bordo strada è pieno di bancarelle che vendono il kralan, un dolce tipico della zona, riso appiccicoso, latte di cocco e fagioli neri cotto alla brace dentro al bambù: pratico, semplice e buono.
Il cielo è grigio, le scarpe rosse, l’acqua marrone.
Negli ultimi anni quest’area della Cambogia è stata colpita da devastanti alluvioni, molti si sono travati senza casa, molti hanno perso la vita, l’ultima di tale devastante portata è stata nel 2013.
Il porto non è che una piccola stanza arredata con due tavoli, delle mappe geografiche, e una passerella che dovrebbe avvicinarti alla barca con la quale attraversare, per due ore, un rivolo melmoso sul quale si affollano barche troppo grandi per poter solcare 60 cm d’acqua.
Un devastante senso di tristezza mi ha preso gli occhi. Un bambino di tredici anni, giù di lì, guida la barchetta dal rumore frastornante che ci accompagnerà in questo dispendioso viaggio (20 dollari a testa), tutto attorno una povertà estrema, barche piccole come un’amaca da casa, l’acqua la si tira su con i romaioli da questa melma per poi farla depurare da elementi chimici prima di poterla usare anche solo per lavare i panni. In questa melma infinita, che copre lo sguardo, spalma del suo colore le sponde, si vive, lavora, gioca, cresce.
La parola fluttuante mi è sempre piaciuta. Ha qualcosa di fanciullesco nel mio sistema di catalogazione delle parole. Di romantico. Ecco cosa pensavo quando ho deciso di intraprendere questa “gita fuori porta” verso i villaggi fluttuanti cercando proprio quello più lontano, dove non ci fossero grottesche aziende che allevano coccodrilli ed orde di turisti in cerca di distrazioni post giornate infinite di templi. Non c’erano, o quasi, turisti in questo angolo di mondo, non c’erano i coccodrilli, ma c’era davvero poco altro.
Una volta disincagliata la barchetta, dato la precedenza a più veloci mezzi di abitanti del luogo, eccoci arrivare al lago. L’occhio si perde nel cercare il confine dell’orizzonte, poi man mano che ci si avvicina, le casupole fluttuanti prendono forma: un negozio, un minimarket, il parrucchiere, la scuola. Tutto dondola al ritmo dell’acqua.
Ed anche i cani aspettano l’onda giusta per saltare in barca.

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