Testo e foto di Federica Brenna

Birmania, Stato Shan: qui fino a poco tempo fa era impossibile arrivare. Zona off limits per gli scontri tra ribelli e forze governative. E’ qui che ho deciso di andare.
Dalla piccola cittadina di villegiatura Pyin Oo Lwin raggiungo Hsipaw a seguito di un lungo e scomodo viaggio in treno ma che mi dà la possibilità di entrare in contatto con la realtà locale. Hsipaw è una piccola cittadina dalle strade polverose, dalla quale è possibile organizzare trekking sulle colline abitate da tribù locali. A differenza di altri trekking descritti sulle guide, questo mi sembra essere il meno turistico di tutti. Riesco perciò ad immergermi nella natura birmana per 3 giorni e 2 notti, in compagnia di altri 4 ragazzi e della nostra guida locale.

Si fa chiamare da tutti Omaung, ha circa 35 anni e vive in uno dei villaggi di etnia Palaung che visito durante i miei tre giorni di escursione nello stato Shan. Indossa un abbigliamento bizzarro costituito da una maglietta semplice in cotone, dei pantaloni larghi tipici Shan che gli arrivano poco sotto al ginocchio, le calze del Barcellona che probabilmente qualche turista gli ha regalato durante la visita, e degli stivaletti leggeri ma robusti, che gli permettono di arrampicarsi agilmente su e giù per le montagne: ci spiega che fino a poco tempo fa non era permesso indossarli perché portati solamente dagli eserciti di ribelli. Sulla sua testa poggia un ampio cappello a punta simile a quello Vietnamita ma decorato con piume verdi. Lo prendiamo in giro riconoscendogli un gusto ricercato. La cosa che apprezzo maggiormente di questo minuto e smilzo ometto è il suo bellissimo sorriso che sfoggia ad ogni occasione. Omaung lavora come guida turistica presso l’ostello Mr Charles e parla un ottimo inglese per cui non manchiamo di fargli i complimenti. Deve essere un ragazzo davvero sveglio perché lui l’inglese non lo ha imparato a scuola, bensì parlando con i turisti o leggendo riviste e ascoltando musica. Il villaggio in cui vive con la famiglia è a qualche ora a piedi dalla cittadina di Hsipaw. In questo periodo la strada che ci porta tra il fresco dei monti è frequentata da tuk tuk carichi di lavoratori provenienti dalla città che si dedicano temporaneamente alla raccolta delle foglie di tè, o da moto cariche fino all’inverosimile di merci di diversa natura. Durante il periodo delle piogge il trasporto per queste strade che, non essendo asfaltate, si trasformano in un vero e proprio fiume di detriti e fango, diventa più difficoltoso. L’unica possibilità di raggiungere la città più vicina è quella di utilizzare gli animali.. al cavallo tocca il trasporto dell’uomo mentre all’asino, che a quanto pare è molto più forte del cugino, così come il bue, tocca il carico pesante destinato ai banchi del mercato.

Intorno a noi la vegetazione è secca e il nostro occhio si abitua alle tonalità ocra dei campi che attraversiamo per tre giorni sulle colline dello Stato Shan. Siamo in estate e non piove da qualche mese. Il paesaggio è bello ma non estasiante: le foreste hanno lasciato spazio agli arbusti rinsecchiti per la siccità. Omaung ci spiega che molti contadini che coltivano mais, il prodotto primario di questa zona, danno alle fiamme tratti di foresta per poter ampliare le proprie coltivazioni o per rifertilizzare il terreno. Tuttavia, mano a mano che saliamo verso le montagne, la vegetazione inizia a colorarsi di verde.

Il villaggio Palaung dove vive Omanug è circondato da alberi di bambù, pini, alberi da tè. L’intero villaggio dedica il proprio tempo e le proprie forze alla raccolta delle foglie di tè e alla loro essiccazione o fermentazione per poi venderle al mercato di Hsipaw. Il tè che viene dai villaggi Palaung è conosciuto in tutta la Birmania.

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Appena varcata la porta che accoglie noi forestieri nel villaggio, osserviamo un bambino giocare con un vitello ad un abbeveratoio, lo stesso che Omaung riuscì a far costruire qualche anno prima grazie all’intervento diretto delle Nazioni Unite. Ora, grazie a questa e ad altre due installazioni nel paese, gli abitanti non devono più percorrere diversi chilometri per andare a prendere l’acqua al fiume. Omaung oltre ad essere guida turistica e padre di tre vivacissimi bambini, è anche capo villaggio, o portavoce: è già stato rieletto per la seconda volta e prima di lui suo padre aveva ricoperto lo stesso ruolo per diversi anni. Crede che anche alle prossime elezioni sarà scelto: ha fatto molto per il suo villaggio e molto vuol fare ancora, come portare una clinica medica e dei medici al villaggio: i rimedi che usano ad oggi sono ancora totalmente naturali e se qualcuno ha bisogno di cure più serie, deve necessariamente raggiungere la prima città ad ore di distanza.

C’è un’unica scuola elementare quassù, che al momento è chiusa per le vacanze estive. Omaung ci spiega che per avere un’istruzione più elevata e poter frequentare la scuola secondaria, se la famiglia può permetterselo, i bambini sono costretti a recarsi in città. Lui ha avuto la fortuna di poter continuare gli studi in quanto è stato ospitato per l’intera durata delle scuole da una zia a Hsipaw. In ogni caso il livello di istruzione in questi villaggi di montagna rimane piuttosto basso. I bambini si abituano già da molto giovani ad aiutare i genitori in casa o in qualsiasi tipo di attività. E questo è vero non solo per i villaggi di montagna, ma ovunque: anche in città nel periodo estivo i bambini aiutano i genitori nelle locande, al mercato o in piccole attività commerciali. Non stupitevi perciò di essere serviti al ristorante da un giovanotto alto poco più di un metro e con le mani traballanti.

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Arriviamo a casa di Omaung dove ci accoglie la sua giovane moglie con una neonata in braccio. La casa è ampia e il cibo che viene servito alla sua tavola è abbondante: tutto rigorosamente a base di verdure e riso. Assaggio un’ottima tea salad e altre verdure a me totalmente sconosciute. Gli abitanti di queste montagne si sono abituati a rendere commestibile qualsiasi cosa la natura conceda loro, perfino i fiori che vengono fritti in padella. La carne è invece un privilegio che si concedono una volta a settimana. E mi sembra di entrare nei ricordi di mia mamma, quando mi racconta che anche lei, in Italia, 50 anni fa, poteva mangiare la carne solo la domenica.

Qui sembra davvero di essere tornati indietro nel tempo, quando la vita di ognuno era scandita non dagli orologi in titanio legati ai polsi, ma dal sorgere e tramontare del sole. La vita birmana incomincia infatti prestissimo la mattina, con il gallo che ricorda a tutti i propri doveri giornalieri, e termina la sera al calare delle tenebre: a notte fonda sono poche le luci accese che si scorgono dalle finestre. La luce elettrica è generata da piccoli pannelli fotovoltaici installati sui balconi di ogni casa: Omaung ci spiega che è un dono recente che il partito USDP ha “gentilmente” concesso al villaggio appena prima che si svolgessero le elezioni del 2015, vinte a maggioranza assoluta dalla Lega Nazionale per la Democrazia. Quasi nessuno qui possiede un televisore, in pochi hanno il telefono cellulare e anche se lo possiedono, è sicuramente di vecchia generazione. I bambini non hanno Play Station o Xbox e giocano con il poco che hanno, spesso appunto, aiutando i genitori in qualche faccenda domestica. Le case di questi villaggi hanno ancora il focolare al centro della stanza, dove il fumo circola per diverso tempo prima di trovare uno sbocco per uscire, rendendo cosi l’aria difficilmente respirabile e gli occhi arrossati. Le pareti che circondano il soggiorno, se così si può chiamare, sono ricoperte da uno spesso e nero strato di fuliggine. In questa stanza si riuniscono, a fine giornata, i numerosi membri della famiglia.

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Anche noi, come se fossimo una famiglia, ci sediamo intorno al tavolo di Omaung a fine giornata, per consumare l’ottima cena. Attorno alla sua tavola, a ora più tarda, oltre a noi forestieri, si aggiungono anche i suoi amici con i quali abbiamo modo di confrontarci, scambiarci esperienze, punti di vista, storie. Parliamo molto a lungo della situazione politica del Myanmar e dell’importanza di Aung San Suu Kyi nella loro storia, del ruolo svolto da suo padre, della dittatura, e degli scontri ancora in corso tra eserciti ribelli, di cui avvistiamo qualche militante. Anche Joe Joe, il saggio, un’istituzione per il villaggio, ormai stanco e anziano, è seduto alla nostra tavola e ci parla del suo passato, del periodo coloniale, di come Aung San sia riuscito a unire il paese e di come la dittatura sia stata feroce.
La serata trascorre cosi, chiacchierando di fronte a qualche birra, dell’ottima grappa e fumando i sigari birmani cheroot… tra risate, momenti di serietà, sorrisi e con una sensazione di appagamento e arricchimento che solo il confronto tra paesi, culture, generazioni e lingue diverse è capace di dare.

Viaggiare è camminare verso l’orizzonte, incontrare l’altro, conoscere, scoprire e tornare più ricchi di quando si era iniziato il cammino”.