testo e foto di Carla Oppo

“Per fortuna appare ancora sui campi di gioco, sia pure molto di rado,
qualche sfacciato con la faccia sporca che esce dallo spartito e commette lo
sproposito di mettere a sedere tutta la squadra avversaria, l’arbitro e il
pubblico delle tribune, per il puro piacere del corpo che si lancia contro
l’avventura proibita della libertà” . Eduardo Galeano

I Bleus sfilano per gli Champs Elysées, alzano al cielo una coppa che trasuda champagne. A un oceano di distanza, turisti francesi sfrecciano su una cadillac rosa tra le vie dell’Avana, intonano la Marsigliese sbronzi di rum.
L’ultima gara è andata, e a Cuba si è tifato di tutto. Per un mese il calcio ha scandito le lente giornate isolane. La televisione pubblica ha puntato su uno sport sempre meno marginale e ha trasmesso i 64 incontri: ogni mattina le dirette, mango e caffè, la sera le repliche al sapor di arroz moro. Adagiate sui divani di casa le famiglie si abbandonano a visioni sonnacchiose, mentre per le strade imperversano gioia e delirio: il Mondiale ha riempito i bar e i bicchieri dei bar, le bocche chiassose degli allenatori occasionali. I derby latini hanno acceso l’animo caraibico, ma i quarti di finale, seppur tutti europei, non hanno smorzato un entusiasmo innocente e sfrenato. L’isola ha guardato la Coppa del mondo da lontano, ha trasformato l’assenza in festa, un calcio in maschera cantato e ballato. C’è stato spazio per tutti, si è brindato a ogni goal.

Mi chiedo cosa resta oggi di questo carnevale sportivo, e trovo risposta, come sempre accade a Cuba, nella strada. In quel calcio indisciplinato, con le porte senza reti, i campi senza linee, i piedi senza scarpe. Qui il futból ha un sapore primordiale. Con le maglie sgualcite e una palla sempre sgonfia, i ragazzi provano a imitare le carrellate d’assi viste al Mondiale. Tra le sontuosità e i ruderi dell’Avana i sogni hanno la sete del mezzogiorno. È un amore senza quartiere. Tra le ville del Vedado uno spilungone con la faccia annoiata calcia il pallone d’esterno e beffa l’amico. A Centro Habana, al grido ‘Io sono Ronaldo’, il gordito si smarca, leggendario, ma perde palla a fondo campo. La bellezza avvolge un gruppo di bambini sotto una pioggia tropicale, al terzo fulmine li vedi correre scalzi verso i porticati coloniali. Negli schiamazzi del crepuscolo, la palla colpisce un vetro già rotto. Dietro il Paseo del Prado l’arbitro non c’è, il buio sospende l’incontro, ma si continua a palleggiare sotto l’unico lampione.

L’Avana è un miraggio, ti porta fuori dal tempo, le sue strade un deposito di umanità. È un racconto mitologico. A calle San Lázaro il portiere ha dieci anni ed esce dall’area. Apre spazi dove non ce ne sono. Uno-due. Supera il rettangolo di gioco, è un profeta, palla al piede fino al Malecón. È finita la città. L’anima spalancata all’oceano, sulle labbra il sapore salato del mare, il portiere abbraccia il pallone. L’avventura proibita della libertà.

 

Carla Oppo nasce in Sardegna nel 1988, era sabato e soffiava il maestrale. A 19 anni attraversa il Mediterraneo alla volta di Roma. Da allora cavalca metro, bus, perde treni, frequenta l’università, diventa storica. Oggi si occupa di audiovisivo. Di giorno lavora per una tv, la notte si sbronza di cinema. Ha scritto e diretto “Fuori Programma”, un corto d’archivio. I suoi giorni da cosmonauta: sguardo nomade, carta, penna e guizzo funky. Quando scende la sera: vino, lampioni e flâneurismo.
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