Testo e foto di Sara Manisera

Esistono tradizioni popolari di non facile comprensione. Sono riti ancestrali legati a memorie lontane che si tramandano fino ai giorni nostri. Mischiano la cultura, il territorio e la religione. La Ashura è uno di questi riti. In essa è racchiusa la sofferenza, il dolore e il sangue. Quaranta giorni di lutto. Ma è nel suo decimo giorno – in arabo Ashura significa dieci – che la commemorazione raggiunge il suo apice.

Habboush è un piccolo villaggio alle porte di Nabatieh, cittadina situata a sud del Libano. Da Beirut dista circa ottanta chilometri ma ci vogliono quasi due ore per raggiungerlo. La strada che percorriamo costeggia il mare. A destra il Mediterraneo, che lo storico Fernand Braudel definiva come “mille cose insieme”, è preceduto da filari di bananeti. A sinistra, piante di ulivi secolari si alternano a palafitte di cemento armato, abbandonate sciaguratamente. Lungo il ciglio della strada i carretti in legno, zeppi di frutta aspettano la sosta di qualche lussuoso Suv mentre le capre brucano quel poco che rimane dell’erba mischiata alla mondezza. E’ la continua contraddizione tra realtà antichissime ancora vive, e l’ultramoderno.

Prima di raggiungere Habboush, Mohammed, un giovane ragazzo sciita che mi accompagna, suggerisce di fermarci per una breve sosta a Saidacittadina in cui è possibile incontrare il mondo romano – presso una bottega tradizionale che sforna i Manoush, tipiche pizzette libanesi ripiene di formaggio o zeitar, il timo. Mentre gustiamo, seduti di fronte al mare, questo manicaretto che profuma di legno, Mohammed mi spiega l’importanza che ha per lui l’Ashura.

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Sono giorni di dolore e di sofferenza perché abbiamo abbiamo abbandonato il profeta e con lui i suoi famigliari”.

Mohammed si riferisce alla battaglia di Kerbala, città situata a ottanta chilometri da Baghdad, in cui morì, nel 680, l’Imam Husayn insieme a settantadue famigliari e seguaci. Husayn, nipote di Maometto si era rifiutato di giurare fedeltà a Yazid, il quale aveva assunto il titolo di califfo per discendenza diretta e non per elezione, come era in uso nella società araba. Per tale ragione venne circondato dall’esercito del califfo in mezzo al deserto e lasciato senza acqua e viveri. La tradizione racconta che Husayn insieme ai settantadue seguaci viene decapitato e le teste esibite in una macabra processione dall’esercito Omayyade. La morte di Husayn è uno dei miti fondativi della Shi’a e ancora oggi nei quaranta giorni della Ashura immense processioni riempiono i paesi e i quartieri a maggioranza sciita.

Il paese di Mohammed è uno di questi ed è vestito interamente a lutto. Stendardi neri e verdi adornano tutto il centro abitato; gli uomini e i bambini siedono accanto a dei baracchini in legno, ricoperti di tessuto e installati appositamente per la Ashura. Offrono gratuitamente cibarie e bevande a chi vi transita. L’offerta e la condivisione del cibo è un modo per commemorare e ricordare Huseyn e il suo sacrificio.

Le donne invece, anch’esse vestite di nero e verde, sono indaffarate a piegare gli stracci di lino che serviranno il giorno seguente ad asciugare il sangue. Alcune invece distribuiscono l’hrissi, il piatto tipico a base di orzo e pollo, che si cucina durante la Ashura. Ci vogliono più di dodici ore per prepararlo e questo avviene in enormi casseruole appoggiate sul fuoco in mezzo alla strada. Uno spettacolare rituale comunitario a cui tutti, a turno, vi prendono parte.

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L’energia che si percepisce è quasi mistica. E’ il nono giorno dell’Ashura, i negozi sono quasi tutti chiusi e i canti dolorosi riecheggiano in tutto il villaggio, raccontando la morte di Huseyn e la sofferenza dei suoi famigliari lasciati senz’acqua nel mezzo del deserto. “Se capisci i canti, non puoi non piangere” – esclama Fatima, una giovane ragazza del villaggio.

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Ma è nel decimo giorno che questo rito popolare vive il suo apice. Le stradine del centro cominciano ad affollarsi fin dalle prime ore dell’alba. C’è chi prepara il caffè, chi sistema i tavoli, chi predispone delle postazioni di pronto soccorso. Poco dopo le otto del mattino centinaia di persone vestite di bianco si radunano di fronte alla piccola moschea. Altri sono già all’interno riempiendo la sala principale. In una mano la spada, nell’altra lo smartphone. Tradizioni ancestrali e modernità che si amalgamano indissolubilmente. I “mastri” della Ashura iniziano il rito, incidendo leggermente il capo ai più giovani. Altri uomini, avvolti da una forte carica di dolore, iniziano a cantare “haydar, haydar, haydar”, l’altro nome che indica il profeta Mohammed. C’è chi canta, chi piange, chi batte le mani sopra la testa e chi contro il petto, a ritmo sempre più crescente. La manifestazione si trasforma in una grande rappresentazione collettiva che sfocia in un corteo cittadino. Durante la processione, i fedeli continuano a ferirsi la testa con coltelli affilati e la sofferenza aumenta con l’avvicinarsi alla moschea. L’odore nauseante e acre del sangue si attacca ai vestiti e penetra in profondità nelle vie respiratorie. La vibrazione magnetica, l’altissima carica emotiva e l’energia primordiale avvolgono gli spettatori che inconsciamente prendono parte al dolore vissuto dal profeta più di nove secoli fa.

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Questo rito ascetico, riconducibile ai riti di flagellazione, non è appartiene solo alla religione musulmana (va ricordato che solo una minoranza ne prende parte). In molte religioni antiche del Mediterraneo, la flagellazione veniva adottata sia per uno scopo esorcistico che fecondativo e ancora oggi, in alcuni paesi dell’Italia centro meridionale, durante la settimana santa si praticano i riti di flagellazione – la processione dei Vattienti o dei Battuti – con il sangue.

Pratiche tradizionali che risalgono a epoche antecedenti alle religioni monoteistiche e che si tramandano ancora oggi, nell’Islam come nel Cristianesimo.

Mario Alcaro, filosofo catanzarese, nel libro “Sull’identità meridionale” scriveva che è necessario riscoprire le proprie tradizioni – la complessa ideologia della morte, il culto della memoria e il permanente dialogo con i defunti – affinché si possano gettare le basi per una nuova cultura di appartenenza del Mediterraneo.

Ed è di fronte a quel mare di mezzo, oggi sempre più blindato dalla paura dell’altro, che Mohammed mi saluta. Ha il volto affaticato e le ferite sul capo ancora sanguinanti ma i suoi occhi discreti emanano un’avvolgente sensazione di pace. “Chissà se dall’altra parte del Mediterraneo capirebbero cosa significa questo strano rito”, esclama scherzosamente.

Non lo so se lo capirebbero. So solo che alcune tradizioni di paesi mentalmente lontani, sono molto più affini (dal latino affine, confinante) della distanza che li separa.