Testo e foto di Alessandra Alabiso

Ricordo il primo giorno in cui sono ritornata in Italia: il mio sguardo, ormai abituato alla frenesia, non sapeva bene dove andare a posarsi. Tutto ciò che vedevo diventava oggetto di paragone con l’esperienza vissuta in India: le auto mi sembravano rigorosamente incolonnate, nessuno guidava in contromano e nessuna mucca, nel mezzo della strada, ostacolava il mio cammino. Era strano non essere incalzata da tutti quegli stimoli visivi, uditivi e olfattivi; la mia mente paradossalmente era confusa da tanta tranquillità. Infatti ancora si sarebbe aspettata mille sollecitazioni e altrettante informazioni da rielaborare in pochi istanti. Già, perché l’India è questo: un concentrato di contraddizioni da decodificare in un batter di ciglia. Ricchezza e povertà, dignità e soggezione, vita e morte scorrono sullo stesso livello, accostate le une alle altre, sconvolgendo e disorientando chi non ci è abituato. Sotto la pioggia improvvisa, con l’acqua che scivola sul poncho, bisogna saper arrotolare i pantaloni sopra le caviglie e coi sandali farsi largo nelle pozzanghere, mentre le auto passano al tuo fianco senza tener conto della carreggiata.

Molto spesso ci si perde fra le vie tutte uguali di queste labirintiche città, dove Google maps fa cilecca e ci si deve affidare a qualche consiglio di un passante e talvolta solo al proprio istinto. Coi tuk tuk si sfreccia fra un’infinità di cose e fra altrettante persone, respirando i gas dei tubi di scarico di vecchi furgoni Tata, che sono così colorati da fare un effetto caleidoscopico. Tonalità sgargianti di vesti si mescolano poi fra di loro, al tintinnio di cavigliere d’argento, mentre da lontano si sente il profumo degli incensi di uno dei tanti templi indù.

Là, fuori dai cancelli degli edifici sacri, si è accolti da petali sparpagliati per terra, caduti da ghirlande votive. Sembrano essere stati messi lì volutamente: forse per abbellire i marciapiedi sporchi o forse per invogliare ad entrare. Così, dentro, si rimane in silenzio osservando quelle corone di fiori, intrecciate sapientemente dalle mani esperte di chi sa come non rovinarne gli steli. Credenti, accalcati uno appreso all’altro, toccano e onorano quegli altari consacrati e coi piedi scalzi e lo sguardo sereno si dirigono poi verso l’uscita. Allora, li accoglie nuovamente il marasma di vite che s’intrecciano fra loro per brevi istanti confusi; laddove il profumo delle spezie si mescola all’odore acre di sporco e a quello di sudore. In certi momenti avrei voluto scappare, perché quello che vedevo mi faceva stare male. Ciò che si profilava d’innanzi ai miei occhi andava ben oltre il teatro della vita: esso in realtà ne era il retroscena, le sue quinte.

Qui non c’era e non c’è nessun copione fra le mani degli attori e la scena non è preparata come quando si sta sul palco e si apre il sipario. In questa terra non c’è forma che tenga, recipiente che contenga, in essa si svela senza mezze misure il paradosso della vita: la sua inafferrabilità e le sue infinite antinomie. Così, sulla strada del ritorno, dirigendomi coll’auto verso casa, ho realizzato che come si vive non è altro che uno solo dei tanti possibili modi d’essere.