di Michele Capitani

(testo e foto Siae 2013)

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“SILENZIO”

Il silenzio della steppa dapprima ti conquista gli occhi.

Fuggiti dall’assurda capitale, brutta e cupa, e otturata da un traffico allucinante, ecco che subito ti si aprono come un miracolo le inarrivabili vertigini orizzontali delle praterie, e poi delle steppe: chi fa fatica a non poter appoggiare lo sguardo su un profilo, che sia un monte, case, alberi, ebbene: costui eviti Mongolia con tutta la cautela.

Viceversa, chi ama gli spazi proverà nostalgia già prima di vederli, tanta è la voglia di lasciarsi dietro le spalle la città, il rumore, le folle.

Spazi, luce, silenzi, che dagli occhi si fanno largo allargandoti dentro, quell’indimenticabile prima volta che da solo, nella steppa, ti inoltrerai pian piano, camminando…

E tutto diventa silenzio.

Ti trovi ad avere a che fare con qualcosa che nessun paragone vale ad accennare: né il silenzio di certe case deserte, nei paesetti senza traffici, né addirittura il silenzio sotto il mare.

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Ecco: sentire i propri passi nella steppa, sordi e senza eco, coi sensi smorzati quasi come se si fosse sott’acqua. E al fermarsi, capire di essere stato avvolto da un silenzio enorme, un tacere cosmico che non può avere un inizio e un termine.

Uno spazio e un silenzio di cui non puoi essere padrone perché niente lo può né scalfire né riempire, neanche una voce da lontano, la quale appare un’incrinatura superficialissima di qualcosa di non limitabile.

Qualcosa che non si può possedere.

Qualcosa che non si può nemmeno diminuire.

Solo due potenze lo possono sfidare: il vento, quando c’è.

E i tuoi pensieri.

Ma se non ci sono loro, è come entrare in una sconfinata stanza insonorizzata, che non ti aspettava, e in cui non ti sembra neanche di essere entrato, tanta è l’invariabilità di quel gigante zitto.

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 “SPAZIO”

 Al primo piano del museo di belle arti “Zanabazar” di Ulan Bator, si ammira un amplissimo e sbalorditivo dipinto su tessuto, raffigurante “Un giorno in Mongolia”.

 Creato un secolo fa, mostra un’eccezionale vivezza nelle innumerevoli vignette di cui si compone, alla Bosch, o come una complicatissima tavola di Jacovitti: infinite immagini una attigua all’altra, ma armoniche nel comporre l’illustrazione di tutto quanto l’uomo compie sotto il cielo enorme di questo paese.

 Dal governo dei cammelli, all’ispessimento del feltro per foderare la gher, cioè la tenda, fino al parto, alla liturgia nel tempio, e ai cento altri gesti dell’uomo.

 Attività onerose o leggère, delicate o grossolane: c’è tutto.

 Però, quel che più sorprende non è nemmeno la quantità e la completezza di tale descrizione, non dissimile da ciò che può lasciare intendere anche un nostro museo della civiltà contadina: in quelle nostrane raccolte magari si va più per metonimie, cioè gli oggetti cercano di ricordare i gesti e le persone, mentre qui vedo già un’arte, vale a dire una rappresentazione.

 Quel che conta, in entrambi, è il fatto che è simile l’accumulo che ti resta negli occhi, e la sorpresa luminosa per quanto varia possa essere la vita che, semplificando troppo, definiremmo tradizionale, nelle nostre campagne di un tempo, come nelle steppe dei nomadi quaggiù.

 Sorprende e muove al riso anche la salacità pornografica e divertita dei due che troppo esplicitamente stanno facendo l’amore, oppure quell’altra vignetta, ove il marito sta per smascherare la moglie fedifraga e l’amante…

 Eppure, nemmeno questo mi permane di più nella memoria.

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No: quel che colpisce, come può avvenire quando si ha davanti una proliferazione di immagini, è in verità una assenza, l’assenza di qualcosa che resta tutta fuori da questa tela. Parlo di qualcosa che pure impressiona immediatamente e permanentemente l’occidentale che giunge fino in Mongolia, il viaggiatore che, di conseguenza, stupisce nel notare che quel pittore, invece, non lo considerò come fondamentale nella vita del suo paese.

 Tanto dominatore dell’universo mongolo, quanto grande assente in questa tela: è lo spazio.

 Nella realtà, o in quella che noi stranieri crediamo di vedere come tale, fra una gher e un’altra dove le famiglie creano le proprie vite, ci sono chilometri, vallate, ondulazioni morbidamente infinite… invece in questo dipinto non c’è nulla, anzi diciamo meglio: il Nulla non c’è, le distanze sono ignorate, non viene disegnata se non qualche cunetta o qualche duna, che poi sono scelte formali e neppure paesaggistiche, cioè servono giusto a separare le varie vignette dove gli uomini e gli animali vivono, e fanno.

 Le vastità dell’Asia centrale diminuite, sintetizzate fino al rango di divisori, il servile rango che nell’arte europea hanno le raggrinzite cornici tra le formelle, le modanature tra gli affreschi.

 Il territorio misurabile è un fatto, lo spazio mentale è tutt’altro orizzonte: conta l’uomo, le sue relazioni e i suoi bisogni, non quanto sta in mezzo.

 Questi giganteschi spazi stregano noi occidentali, che veniamo da fuori e ci piace che le praterie e i deserti ci diano le vertigini e ci tolgano il fiato. I mongoli però, se devono disegnare la dura praticità del loro giorno, disegnano quanto nel giorno si compie; gli enormi vuoti sono un contorno. Smisurato, eppure sempre un contorno.

 Non si deve andare poi lontano per capirlo: i Romani nella Tabula Peutingeriana ignorano il mare (che pure era Nostrum, mica un mare ignoto), perché lì in quella carta a loro interessavano le strade, e non altro.

 Il segreto della comprensione del pensiero dell’uomo, anche quando crea stranezze come l’Impero Romano senza Mediterraneo, o una carta della Mongolia senza i grandi spazi della Mongolia, è ricordare che l’uomo si pone sempre al centro di tutto, ed ecco che anche questo pittore mongolo di cent’anni fa ce lo ricorda: se il concreto della quotidianità si prende tutto lo spazio, allora si sacrifica senza problemi lo spazio di fuori, per quanto immenso e affascinante esso sia.

 Perché, più ogni altra cosa, interessante per l’uomo è rappresentare la propria vita.

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 “CALCIO”

Parecchi giorni che andiamo viaggiando su queste difficili piste. A differenza dei primi giorni di calde giornate e nottate fresche nei deserti, oramai da una settimana che siamo nelle vere e proprie praterie il cielo rimane coperto e immobile, la temperatura mai tiepida, e spesso pioviggina malignamente.

È questo: oggi siamo arrivati al giorno peggiore: siamo tutti stanchi e mogi, è dall’altro ieri che non vediamo niente se non praterie del verde più oscuro, e nubi di piombo. E oggi, per di più, spossati per un pranzo che ha finito di appesantirci anche di dentro, spropositato impatto con un’abbondanza che era sconosciuta in tutti i giorni precedenti.

A metà di questo misero pomeriggio arriviamo infine al campo, deserto e spoglio, e con le tende non curate; i bagni sono ancora in costruzione, ci toccherà perciò la puzzolente, scomoda e deprimente buca mongola.

 Non è una giornataccia: è proprio la più disforica poiché da diversi giorni è l’umore di tutti noi che se ne va calando, scendendo in una stanchezza interiore che è il rischio di certi viaggi accidentati e lunghi… Oggi sembra che non sopportiamo più questo gelo umidiccio e sottile, dopo che eravamo stati presi, là in quei giorni lontani, dall’avvolgente caldo secco del Gobi.

Un’interiore stanchezza da fine viaggio ci ha preso in massa, tutti e quindici.

Ora eccoci, nella piccola prateria fra le gher e i bagni in costruzione, con le mani in tasca e lo sguardo immalinconito, sotto il piombo del cielo… le aperte lontananze con le basse colline in fondo in fondo, adesso non ci riposano più; sembrano poterci solamente desolare.

D’un tratto però, come se stessimo su un prato di Pasquetta, Beppe osserva:

– Mmhh… qui ci vorrebbe un pallone…

 Un pallone.

 Un pallone?…

 Quell’oggetto remoto nel pensiero e negli spazi, che da due settimane non vediamo.

 Perché i Mongoli o lottano, o giocano a pallacanestro, o a biliardo, ma un pallone, qui nelle infinite steppe, pare non essere mai rotolato.

Incurante, Beppe aveva pronunciato questo pensiero assurdo, mentre forse Dio o il vento gli avevano sussurrato che si sarebbe verificato un miracolo: scappa fuori un bel pallone di cuoio, e lì io capisco che sta succedendo veramente un prodigio, perché siamo in un paese ove non abbiamo mai veduto neanche un campo da calcio.

 E come in ogni vero miracolo, tutto si trasforma: fatte le porte con due mattoni, alla partita aderiscono quasi tutti, comprese le donne, e le ragazze, e la nostra interprete Oyuna, e i due autisti Mukuat e Torjo, ed ecco che se ne svapora nel nulla ogni stanchezza e ogni fatica e ogni scontentezza che ci appesantivano.

 Si ride da matti, si suda, si perde subito il fiato, ma si continua a giocare, perché avevamo un bisogno urgentissimo e vitale di calore e leggerezza.

 Ecco perché nessuno abbandonerà il campo anzitempo, lieviterà anzi una partita di un’ora! E non chiediamoci dove troviamo le energie, perché stavolta vale l’opposto: è dal gioco che traiamo le forze e lo spirito che pareva dissolto nel lunghissimo itinerario.

 I due ragazzi mongoli, tra le tante bizzarrie esibite in questa partita, tenteranno di arrivare nella nostra porta, ponendosi uno davanti a “sfondare” difendendo il compagno che porta palla… variante innocua e inefficace dell’avanzata mongola di otto secoli prima! Li avesse allenati il vecchio Gengis…

  A qualcuno vola una scarpa, qualcuno non riesce a smettere di ridere, altri tenta una tattica, qualcun altro scopre che marcare è troppo impegnativo; altri ancora, di soppiatto, allarga la porta avversaria.

 Finì dopo un’ora quella portentosa, comica partita, al ripiombare dell’acquazzone freddo delle steppe, ma tanto ormai non ce ne importava più niente: il fiatone e il sudore erano allegria, e il vento si era fatto un compagno innocuo, divenuto solamente un gelo lieve.

 Il gioco aveva riacceso il calore dentro di noi: avevamo in noi, di nuovo, la sorgente per riprendere il lungo viaggio…

 Ecco perché questo gioco ha conquistato ogni canto del pianeta, come nemmeno Cinghis Khan riuscì a fare: in quell’opaco giorno eravamo adulti intristiti e infreddoliti.

 E poi d’incanto tornammo bambini.

 Bastava una palla.

foto 7

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