Testo di Enrico Cerrini e foto di Hua Wang

Non pensavo di ritornare in Bosnia a tre anni dalla mia prima visita. Quando ho scovato un volo a basso prezzo per Spalato, credevo di alternare Croazia e Montenegro tralasciando il paese musulmano. Quando mi sono accorto che Mostar sarebbe stata facilmente raggiungibile, Hua mi ha guardato con quei bellissimi occhi interrogativi che usa solamente quando la domanda è cruciale: “Perché non Sarajevo?” Già, perché no? Come si può privare la persona amata della visione dei caffè del centro cittadino o dell’ascolto del canto del muezzin che chiama i fedeli alla preghiera? Come si può privarla dall’emozione di contemplare la risurrezione di una delle città martiri del novecento?

Pocitelj (1)

Pocitelj

Appena scesi a Spalato, noleggiamo un auto e ci dirigiamo verso Pocitelj, piccolo borgo medievale a pochi chilometri da Mostar. Il paesino è come lo ricordavo, un’immagine da cartolina per turisti che vogliono assaporare un pezzetto di campagna immacolato. I venditori ambulanti di frutta secca, calamite e piccoli gadget sono aumentati ma non sono invasivi. Il castello è diroccato, razionalmente necessita di un’evidente ristrutturazione e di adeguate protezioni, mentre emotivamente è perfetto così, selvaggio, pericoloso e intrigante. Il panorama che si osserva è ineccepibile: il fiume Neretva scorre tra le montagne, mentre sotto di noi si staglia la poderosa moschea e le stradine di ciottolato bianco addolciscono il paese.

Quando visitiamo la moschea, scoviamo una presenza particolare. Una giovane presentatrice parla attraverso un grande microfono di fronte a un cameraman. Se ne vanno quando entriamo nel luogo di culto. Li incontriamo di nuovo, circa un’ora dopo, davanti al ponte che dà il nome alla città di Mostar, mentre illustrano questa seconda meraviglia. Mi accorgo che lavorano per una tv turca. E’ il primo segnale di una presenza che non avevo avvertito tre anni fa e che si farà sempre più pressante durante il viaggio. Appare chiaro come la Turchia abbia deciso di puntare gran parte delle risorse sulla sua vecchia colonia.

Pocitelj (4)

Il premier turco dimissionario, il professor Ahmet Davutoglu, da accademico teorizzava la strategia neo ottomana, volta a instaurare un’area di influenza su tutti i territori del vecchio impero e su tutta la turcofonia, uno spazio che va dalla regione cinese dello Xingjiang fino ai Balcani passando per il Turkmenistan. Il grandioso progetto fu subito apprezzato dal vecchio premier, e attuale Presidente Recep Tayyip Erdogan. Ma l’influenza nell’Asia centrale stenta a progredire perché i moderni popoli turcofoni guardano con sospetto quei cugini che partirono a cavallo dagli altopiani dell’Altaj e del Pamir secoli fa, fecero successo in Anatolia e tornano oggi a promettere un radioso futuro. La Bosnia si presta ad una maggiore permeabilità perché si sganciò dall’impero ottomano solo alla fine dell’ottocento e quell’esperienza è ancora viva nelle tradizioni locali. Inoltre, il supporto dell’occidente durante la guerra civile non è riuscito a penetrare i sentimenti di questo popolo. I giovani bosniaci ricordano le immagini dei carri armati delle Nazioni Unite che, durante l’assedio di Sarajevo, non potevano far altro che scortare i civili musulmani da un lato all’altro della strada senza muovere un dito contro i cecchini serbo-bosniaci. La sigla UN fu ribattezzata “uniti per niente”. Il moderno anti-islamismo non aiuta di certo questo paese ad avvicinarsi all’occidente e lo consegna tra le braccia di Erdogan, novello Sultano di Ankara.

Mostar

Mostar ha un piccolo centro, formato da stradine bianche che si delineano intorno al famoso ponte sulla Neretva. Sia il centro che il ponte furono completamente ricostruiti nel dopoguerra grazie all’aiuto internazionale, e il ponte è oggi uno dei simboli mondiali dell’amore che trionfa sulla guerra. Ma come tutti i simboli è spesso abusato. Frotte di turisti intasano le strette vie che diventano un concentrato di caffè turistici e negozi di vari gadget. Una seconda parte del centro appare meno raccolta, le strade si allargano e diventa più vivibile. Qui si possono ancora notare dettagli e particolari che vengono perduti nella caoticità delle vie più strette. I commercianti possono continuare a bere il proprio caffè in pace, simbolo delle lente abitudini dei popoli che sopravvivono alla moderna vita frenetica. La tazza di caffè bosniaco affiancata a un bicchiere d’acqua mezzo vuoto, posta sui gradini dei negozi, diventa il segno di una comunità che lavora molto, ma con i propri ritmi.

Mostar (3)

La moschea accoglie un centro di cooperazione con la Turchia e mentre un gruppo di addetti ai lavori, con il proprio cartellino bene in vista, se ne va, due gruppi di turisti entrano. In lontananza c’è il ponte, immobile, bellissimo, ma sempre più affollato. Il ragazzo che siede sul cornicione e che sembra doversi tuffare da un momento all’altro, ha deciso finalmente di dare spettacolo al pubblico. Quando gli “uomini con il cartellino” arrivano sul ponte, il ragazzo agita una bandiera turca e si butta in acqua, tuffandosi dal centro, il punto più alto. Con calma, ritorna sopra, risalendo dalla spiaggetta. I turisti applaudono.

Sarajevo

A Sarajevo parcheggiamo ai margini del viale che conduce al centro cittadino per terminare nella Baščaršija, punto focale della città. Nella zona pedonale, via tipicamente asburgica con i suoi locali e le sue chiese sia cristiane che ortodosse, noto qualcosa che mi era sfuggito nel precedente viaggio: le tristemente famose Rose di Sarajevo. Quando le ho affannosamente cercate, non le ho trovate, mentre stavolta le ho subito notate pensando che non valesse la pena cercarle, come se la mia mente avesse bisogno di essere sgombra dall’obiettivo per mettere a fuoco quelle chiazze rosse, simboli di sporchi omicidi avvenuti più di venti anni fa, perpetrati da cecchini su civili inermi.

Sarajevo (1)

Il quartiere islamico è quello più affascinante. La grande moschea di Gazi-Husrev Beg è ancora affollata da fedeli, i caffè che si dilatano nelle vecchie stalle del caravanserraglio sono ancora frequentati da donne velate che confabulano freneticamente, e nel piano superiore, dove riposavano i viandanti, oggi si trovano anonimi uffici di avvocati a cui piace farsi portare il caffè. Al contrario, appaiono anonimi il Sebilj, la fontana simbolo della città, la via del rame e i mercati che espongono soprattutto le magliette dell’attaccante Edin Džeko, amato in patria pur avendo deluso le aspettative dei tifosi della Roma.

Sarajevo (2)

I migliori prodotti tipici si possono mangiare nei ristoranti dove il piatto che va più di moda sono i ćevapčići serviti con pane, cipolla cruda e kajmak. I ćevapčići sono piccole salsicce di carne trita di manzo e agnello, tipiche in tutta l’area balcanica, mentre il kajmak è un formaggio formato dalla panna che produce il latte quando viene bollito. Dopo pranzo, è necessario bere il caffè bosniaco, variante di quello turco, dove la polvere frutto della macinazione si confonde con il liquido, servito con un bicchiere d’acqua e delle caramelle che addolciscono il palato. Dopo tre anni, voglio ritornare a berlo nel “Behar” un piccolo locale gestito da una signora anziana, per me simbolo della persistenza e dell’ostinazione umana che fronteggia disastri e cambiamenti epocali.

A pochi metri dal Sebilj e parzialmente snobbata dal flusso turistico, si staglia la vecchia chiesa ortodossa, piccolo concentrato di spiritualità. Il visitatore può ammirarne in silenzio gli affreschi, e ascoltare profondamente la musica in sottofondo. Più lontana, si nasconde la casa Svrzo, viaggio nel tempo all’epoca dell’occupazione ottomana. La casa turca coinvolge lo spettatore con i suoi colori dove risalta il rosso cupo, e il suo mobilio, caratterizzato dai tappeti che sembrano avvolgere tutto, fino a coprire i gradini a fianco dei muri, in modo da tramutarli in grandi divani dove un tempo poteva trovare accoglienza un indeterminato numero di ospiti. Se il piano superiore testimonia una vita casalinga lenta, fatta di riposo e socialità, il piano terreno, formato da dispense e cucine, materializza il duro lavoro della servitù.

Sarajevo (3)

Dopo un faticoso tragitto, raggiungiamo un punto panoramico e Hua mi guarda con occhi soddisfatti: “E’ il posto più bello, fino a questo momento”. Dall’alto abbiamo una visione d’insieme di cos’è Sarajevo, di quell’orgia di minareti islamici e di croci cattoliche e ortodosse che non si può mettere a fuoco semplicemente girovagando per la città. Nel mezzo di questo caos interreligioso scorre placido il fiumiciattolo Miljacka, mentre le montagne svettano a ricordare che qui si tennero i giochi olimpici invernali del 1984. Sono passati solo trent’anni, ma era un’altra epoca, prima della guerra, prima di tutto. Se, un tempo, sulle punte delle montagne si destreggiavano gli sciatori, oggi si scorgono chiazze verdi ricoperte da lapidi bianche, i cimiteri islamici.

Quest’ultimi appaiono come luoghi ameni all’esterno, con le loro lapidi chiare e il punto centrale che ricorda la forma di una moschea. In quello che visitiamo, si intravede una piccola fontana interrata a forma di mezzaluna. L’amenità svanisce leggendo quelle lapidi che raccontano storie di vite spezzate dalla guerra, giovani nel fiore degli anni e vecchi che sopravvissero alla seconda guerra mondiale per poi perire in una drammatica guerra civile. Rientrando nel centro, troviamo un altro simbolo della distruzione: la biblioteca nazionale, bruciata da criminali serbo-bosniaci in una notte d’estate. Con l’edificio se ne andarono migliaia di volumi che racchiudevano la conoscenza di molteplici culture, da quella slava a quella ebrea, come magistralmente cantato da Giovanni Lindo Ferretti con i suoi CSI in “Cupe Vampe”.

Il resto è un ameno girovagare lungo la Miljacka: attraversiamo chiese, la sinagoga, il ponte Latino, dove fu assassinato l’Arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo scatenando la prima guerra mondiale, e le altre moschee. La moschea dell’imperatore, che tre anni fa si mostrava come malmessa, oggi è un edificio scintillante, moderno, messo completamente a nuovo grazie ai finanziamenti che provengono dalla Turchia. Molti altri edifici riportano una piccola targa dove svetta la bandiera di Ankara e anche le panchine nei parchi invitano a viaggiare verso Istanbul.

Foča

L’indomani attraversiamo la Republika Srpska, enclave serba della Bosnia, prima di entrare in Montenegro. Il viaggio non è facile perché la strada, lungo le montagne e il fiume Drina, è tortuosa e la dogana non ha mai visto un permesso italiano, così la polizia ci fa attendere circa trenta minuti per verificare se quello di Hua sia un documento valido. Prima di varcare il confine, ci fermiamo a Foča, una cittadina a maggioranza ortodossa dentro uno stato musulmano. Gli aiuti di Ankara non si vedono, siamo fuori dalle grazie del Sultano, il paese appare povero, come appena uscito dalla guerra. La torre dell’orologio che sovrasta il centro cittadino è attorniata da edifici decadenti. Nel mercato, anziane donne ci mostrano insistentemente i loro prodotti, specialmente frutta e verdura, ma anche formaggio e carne. Alcune indossano abiti sommessi, altre il tipico scialle nero intorno alla testa, ai bordi, uomini confabulano vestiti in modo distinto.

Foca (3)

Se i centri commerciali di Sarajevo si presentavano rosei, invitanti, omologati al consumismo occidentale, qui è ben diverso. Ci sediamo per un cappuccino, chiediamo se possiamo usare il bagno. Il barista ce lo indica ma non parla inglese, ci perdiamo nei meandri di quelli che dovrebbero essere negozi. Ma solo pochi sono aperti sui tre piani dell’edificio, forse meno di dieci. Per il resto sono stanze vuote, lugubri, alcune con una manciata di oggetti e manichini, testimonianza di una ricostruzione tentata ma mai portata a termine. Troppo disinteresse per una comunità che appare dimenticata da tutti i governi, da quello bosniaco a quelli europei passando per Belgrado. Una comunità che è colpevole di avere lo stesso sangue, la stessa etnia dei criminali di guerra che proprio in questa cittadina tenevano prigioniere donne velate per stuprarle a piacimento.

Negli ultimi anni la comunità internazionale ha giudicato positivamente i progressi nel campo della convivenza tra musulmani e ortodossi, la comunità appare viva, fatta di persone che sembrano chiedere dignità e riscatto. Ma tutto questo non basta, il tempo appare sospeso, la città avvolta in un limbo tra la vita e la morte.

Foca (4)