Testo e foto di Sara Alzetta

When I got caught at the ferry, it was at the last security check,
by the British police.
They treated me like a gentlemen,
they put the torch under the truck and said:
“You have to come out of there now, Sir”.
When they called me “Sir”,
I wanted to go to England with all my heart.


Alla mostra Call me by my name del Migration Museum ci sono andata due volte. La prima perché
mi è stato consigliato, la seconda perché ho deciso di raccontare la storia di un museo che non ha
ancora fissa dimora, e che racconta le storie di migranti.
La cosa che più mi ha colpita di Call me by my name è la trasparenza didascalica dei racconti.
La mostra si distribuiva lungo tre sale e c’erano fotografie appese alla pareti, giubbotti di
salvataggio, documenti, racconti e spezzoni di interviste ai volontari. Ma niente di tutto ciò era
patetico. Nulla era lì esposto per stimolare un sentimento di pena, ma solo per dire le cose come
stanno.
Nell’ultima sala sono state ricostruite delle baracche dell’accampamento di Calais: the Jungle.

È qui che le persone vivono in maniera provvisoria, diciamo un po’ di sfuggita, però è qui che si è
creata una nuova città formata da strutture permanenti come scuole, ambulatori e luoghi che forse
qualcuno chiama casa.
Mi ha colpita così tanto la lealtà del racconto che vorrei essere altrettanto leale nel parlarne.

IMG_3137

 

Quel giorno era presente Sue, la curatrice, che è riuscita ad essere un’ottima portavoce perché
quello che possiamo vedere è quello che chi è “mostrato” vuole svelare di sé. Sue ha veramente
parlato con le persone e con i volontari, ha capito che non poteva organizzare una mostra su una
realtà che non conosceva, e così è partita. Lei è stata solo 3 giorni a Calais, onestamente mi
sembra un po’ poco per poter dire essersi immersi in una determinata situazione, ma lei ha
collaborato attivamente con i volontari, che sono stati un buon ponte verso tutti i rifugiati.
Così come un ponte vuole essere Call me by my name, una scusa per parlare di migrazione nel
Regno Unito e dire che qui non è solo la storia di Calais, ma una storia generale di migrazione che
riguarda tutta l’Europa, la Gran Bretagna e probabilmente il mondo intero.
Il Migration Museum non ha ancora un luogo fisso, si immagina che il suo centro sarò Londra e per
ora fa parlare di sé attraverso mostre temporanee, che illustrano una tematica alla volta di quella
che è la grande storia delle persone in movimento.
Emblematica è la storia di Alpha Diagne. Lui sogna l’Inghilterra. The Blue House, la casa nella
quale viveva al The Jungle, era una scuola e una galleria d’arte. Lui è famoso, la sua storia anche.
The Blue House è stata smantellata e riassemblata, assieme ad altre sue opere, al Southbank
Centre di Londra per una mostra temporanea, mentre a Call me by my name è esporto il suo
autoritratto e la didascalia dice “My art can go to England but I cannot”.
Insomma il Migration Museum è alla sua quarta mostra ed è alla ricerca di una sede fissa, ha
pensato a Londra perché la storia dei popoli in cammino qui è vissuta ma non raccontata, Call me
by my name è stata una bella fotografia e il “la” per una riflessione sincera. L’arte ha accompagnato
il tutto, e infatti uscendo dal museo si può scrivere la propria impressione sulla tela di Cedoux
Kadima. Un’opera iniziata dall’artista congolese e finita da noi.