testo e foto di Pietro Martinucci

Non posso ricordare le sensazioni che provai nel momento in cui venni al mondo. Eppure proprio lì, all’attimo in cui per la prima volta i polmoni mi permisero con fatica di respirare, si riconnettono i miei primi passi in Asia. Le porte automatiche dell’aeroporto si chiudono dietro di me come la forbice che tronca di netto il cordone ombelicale che mi lega, ignaro, all’idea occidentale di come giri il mondo. Solo che io ancora non me ne rendo conto.
Benvenuto in Cambogia.

La prima tappa si trova nella provincia di Kampot, alla Trapang Sangke Fishing Community lungo il fiume: io e i miei compagni di viaggio ci sistemiamo in un villaggio di palafitte sulle sue rive. In questa comunità ha avuto luogo un conflitto molto diffuso nella regione del sud-est asiatico: la lotta contro la deforestazione delle mangrovie. Ma i pescatori qui si sono dati da fare, hanno combattuto per la loro comunità – a fronte persino di minacce di morte – e ora si stanno impegnando a ripiantare la foresta, ecosistema fondamentale per ogni aspetto della loro vita.

È durante un giorno di raccolta dei semi nella vegetazione che giungiamo a un punto di svolta. L’ennesimo acquazzone ci sorprende e rientriamo a ripararci dove vengono ripiantate le giovani mangrovie. Ed è qui che la realtà mi colpisce allo stomaco, pesante come un macigno, quando fino a un attimo prima mi galleggiava di fronte tranquilla e sprezzante, seguendo lo scorrere del fiume. Camminando lungo la passerella di legno ci si inoltra in una parte più vecchia della foresta dove vengono portati i turisti nelle loro gite giornaliere: scendono in barca, si fermano sulle piattaforme di legno, e mangiano accanto alle mangrovie. Le radici sono circondate da spazzatura. Piatti di plastica, sacchetti, bottiglie, contenitori di polistirolo. La consapevolezza è una doccia gelata, potente e improvvisa come la pioggia sferzante che mi avvolge e mi lascia nudo e fradicio di fronte alla totale mancanza di rispetto e coscienza verso questa natura che tanto ci stiamo -si stanno- impegnando a proteggere.

Raduniamo alcuni abitanti del villaggio e li convinciamo a pulire le acque che circondano i sostegni delle palafitte e le radici delle giovani mangrovie, oggi più che mai sovraffollate ai nostri occhi da quella orribile plastica galleggiante. È un’esperienza terribilmente frustrante. La spazzatura è ovunque, le lattine rotte e taglienti sono come trappole per i nostri piedi. Affondo nel fango fino alle caviglie circondato dai rifiuti di qualcun altro ed è forte la tentazione di buttare fuori quello che ho mangiato a colazione. Altri pescatori ci guardano a metà strada tra il divertito e l’incuriosito, e i turisti che sono la causa principale di questo scempio ci indicano ridendo. Il messaggio decisamente non viene recepito. Passa poco tempo prima di realizzare che la spazzatura che raccogliamo non ha una destinazione precisa: contenitori qua e là si dividono in “bruciabile” e “riciclabile”. Ma riciclabile in che modo? La plastica ammucchiata non verrà mai raccolta da nessuno, rimarrà lì e, inevitabilmente, prima o poi tornerà nel fiume, e poi tra le mangrovie, e ancora in mare. Il sud-est asiatico primeggia tristemente tra i fornitori di rifiuti alle acque marine. È un problema più grosso di noi e ben presto ce ne rendiamo conto, non riusciamo più ad andare avanti. All’improvviso questo sentire diventa ben più grande di un viaggio di poche settimane.

Il mare si allunga con piccole onde a lambire la spiaggia di Kep, innumerevoli libellule che volano qua e là a filo d’acqua. Un gruppo di monaci si appresta a fare il bagno senza neppure togliere le tonache, un ordinato sciame arancione che sorride mentre abbraccia il mare. Armato di macchina fotografica passeggio tra bancarelle di pesce secco ed amache. Lungo la strada ci sono diverse famiglie sedute a terra che mangiano insieme, adulti, bambini e anziani, parlano e si divertono. Li fotografo e mi lanciano qualche occhiata indispettita. Tutto ciò che hanno con loro si trova in contenitori di plastica. Plastica si trova tra le radici degli alberi, sui muretti, al limitare della spiaggia. Il segno dei pranzi di famiglia con vista mare è evidente. La ricchezza di questa modernità, la comodità dell’usa e getta, che ha vita breve mentre ci passa tra le dita e poi viene abbandonato a sé stesso senza pensarci due volte. E rimane lì, ingombrante, a galleggiare, e ad avere un impatto più forte sulla nostra vita di quanto non abbia avuto utilità in quei cinque minuti tra le nostre mani. Non riesco più a chiudere gli occhi.


In Cambogia tra il 1975 e il 1979, con l’ascesa al potere dei Khmer Rossi guidati da Pol Pot, venne attuato un tentativo di ricostruzione dell’ordine sociale della nazione, di eliminazione della classe media. Fu uno sterminio che vide soccombere un cambogiano ogni quattro, uno sterminio segno di una nazione dalla storia recente instabile e movimentata. E proprio qui nei pressi della comunità di Russeydom, dove ci troviamo a svolgere attività di educazione ambientale con i ragazzini nel doposcuola, si erge un piccolo tempio contenente i resti di alcune vittime delle atrocità di quegli anni. Circondato ormai da un prato incolto e da rifiuti di plastica, riportiamo la memoria a nuova vita. I bambini ci aiutano a ripulire le strade che portano al memoriale e a rimettere in sesto ciò che è la storia loro e dei loro antenati. Un passato burrascoso e oscuro tenuto in vita da una generazione che finalmente può portare la luce in una nazione – e anzi, in una regione – che ha subito negli ultimi cinquant’anni un’indicibile quantità di violenza e odio, centro e simbolo suo malgrado della follia umana. Nazione di genti purtroppo inconsapevoli del pericolo portato dalle comodità che noi occidentali gli propiniamo ogni giorno, nell’abbagliante splendore di una vita più moderna che acceca e toglie aria e vita a persone che hanno solo voglia, in semplicità, di poter liberamente respirare. E allora anche i più piccoli finiscono per ritrovarsi a sguazzare nella plastica.

È mattino inoltrato, abbiamo finito di pulire e un gruppo di bambini si allontana sotto il sole, tutti ammucchiati su un carretto preso al volo lungo la strada sterrata che si snoda tra le piantagioni di riso. Sorridono. Nonostante tutto, sorridono. Nonostante le avversità, nonostante le montagne di spazzatura, le capanne di lamiera, la pioggia, la scuola, il lavoro. Sorridono, e continuano a vivere. Continuano a voler vivere, e a volerlo fare al meglio delle loro possibilità. E in me cresce forte un amore e una gioia che vogliono regalare a loro, e a tutti i bambini che meritano un futuro migliore, la possibilità di raggiungerlo e stringerlo tra le mani.

Arrivederci Cambogia.


Pietro Martinucci nasce nel 1993 e cresce tra le montagne della Valchiavenna dove impara ad amare la natura. Studente di Scienze Umane dell’Ambiente, del Territorio e del Paesaggio presso l’Università degli Studi di Milano, unisce l’interesse ambientale alle passioni per scrittura, fotografia e viaggi.