Testo di Alessandro Morandini, archeologo

Per un archeologo è questione di abitudine: la Geografia va a braccetto con la Storia. Gli intrecci che si generano da questa unione si realizzano in innumerevoli prospettive di pensiero, riflessione e ricerca.

La cartografia è indubbiamente uno dei settori più stimolanti per imbastire o rappresentare un percorso di ricerca storico-geografico; ma anche per aprire le porte alla fantasia, alla curiosità, all’intuito. Le carte e mappe del passato colpiscono sempre la nostra immaginazione, specialmente quelle in cui la realtà si mescola e si confonde con luoghi leggendari o continenti perduti, legati a miti, favole e altro ancora.

Non si tratta in questo caso di apprezzare solamente voli della fantasia disegnati su carta geografica. Le mappe infatti ci rivelano qualcosa in più delle semplici conoscenze (o pseudo conoscenze) collegate con spazi reali o fantastici: diventano una finestra aperta sulle culture e sui valori espressi da una civiltà in un dato luogo e momento. Hanno spesso molto da dirci proprio quei “non luoghi” che vi sono rappresentati coi loro nomi evocativi, siano essi l’Eden, l’Eldorado, l’isola di San Brandano…

A parlarci, infatti, è una parte dell’immaginario di un’epoca che è venuto a concretizzarsi su una carta geografica.

La geografia del mondo è fatta di cose sognate, fantasticate, di residui immaginari, ancora prima che di mappe e carte geografiche ci suggerisce Gianni Celati nella raccolta”Conversazioni del vento volatore”.

Può lo studio della geografia unirsi allo studio dell’immaginario? La risposta è indubbiamente affermativa. L’immaginario, infatti, è quell’insieme di immagini elaborate dai sistemi socio-culturali, insieme agli strumenti di comunicazione,che in un preciso momento storico e in un dato luogo hanno contribuito ad elaborare una risposta alla ricerca di senso di una determinata società. Come indica il termine, un immaginario è composto soprattutto di immagini. Tutti noi partecipiamo alla vita dell’immaginario del nostro tempo, e affianchiamo a questo grande deposito collettivo di senso anche il nostro personale immaginario, frutto dell’esperienza viva.

In quanto elemento culturale, l’immaginario subisce un suo percorso di formazione e trasformazione storico ed evolutivo lungo il flusso del tempo. Dunque ripercorrere la cartografia antica significa anche acquisire dimestichezza con l’immaginario di un’epoca e del contesto sociale che l’ha prodotta. Significa entrare in rapporto con le menti che hanno generato quella rappresentazione dello spazio proiettandovi parte della propria cultura, dei propri valori, dei diversi progetti.

Il mito delle Sette Città di Cìbola (o anche Civola o Cevola) può rappresentare un buon inizio per familiarizzarsi con l’immaginario di un’epoca. L’Atlante di Joan Martinez del 1578 ce le rappresenta a ridosso della costa occidentale del Messico, ciascuna città sormontata (impropriamente) dal vessillo del Regno di Spagna.

Intorno al 1530 infatti si era sparsa la voce che a settentrione del Messico vi fosse un reame, chiamato Cìbola, composto da sette città, con palazzi di marmo anche di undici piani, e caratterizzato dalla presenza di immense ricchezze minerarie, in particolar modo pietre preziose oro e argento.  Si diceva che l’oro abbondasse al punto da venir utilizzato per produrre strumenti d’uso comune, come palette per detergere il sudore dal corpo.

Il vicerè della Nuova Spagna, Don Antonio de Mendoza, per verificare queste voci, mandò in perlustrazione un frate francescano, Marco da Nizza, il quale, partito il 7 marzo 1539 da Culiacan, tornò pochi mesi dopo confermando tutto, eternando queste fabulazioni nella sua relazione di viaggio. Un documento affascinante, in cui il frate ci descrive il Regno di Cìbola, i nomi delle città, le ricchezze del territorio e il fatto che egli stesso ne avesse preso possesso in nome di sua maestà il Re di Spagna e del vicerè, ribattezzando quel luogo come “Nuovo Regno di San Francesco”.

Pertanto al vicerè Mendoza parve opportuno approfittare della situazione: se in quegli anni si erano trovate (e depredate) una Tenochtitàn e una Cuzco, perchè non potevano esistere a nord situazioni identiche o più ricche ancora?

Venne velocemente allestita nel 1540 una spedizione di conquista, affidata a Francisco Vàzquez de Coronado, il quale, con l’appoggio logistico di una flotta nel Golfo di California, aveva il compito di rintracciare il regno di Cìbola sotto la guida di Marco da Nizza.

Il viaggio si rivelò oltremodo lungo, ben oltre quello descritto nel resoconto del frate francescano. La spedizione infatti attraversò il Rio di Sonora, addentrandosi nell’attuale Arizona attraversando deserti  torridi invece di valli lussureggianti; un distaccamento scoprì il Gran Canyon del Colorado. Ma il regno tanto agognato non saltò mai fuori, il viaggio fu estremamente sofferto, e Coronado rispedì al mittente Fra Marco sotto scorta per evitargli il linciaggio da parte dei soldati.

Quando ormai ogni speranza era scomparsa, una guida indiana, che gli spagnoli avevano soprannominato “il Turco”, affermò che, invece di Cìbola, era a conoscenza di un regno chiamato Quivera (o Quivira), il cui sovrano prendeva il cibo da piatti d’oro e dormiva sotto le fronde di un albero addobbato di campanellini d’oro… La spedizione trovò energie per spingersi lungo le grandi praterie fino all’attuale Arkansas, e quando si scoprì che il Turco cospirava con gli indiani per tendere un’imboscata agli spagnoli stremati, questi non fu fortunato come Fra Marco…

Cosa ha spinto questi uomini a sacrifici così estremi? Un cronista dell’epoca afferma che in quegli anni i “conquistadores” pronti ad imbarcarsi dalla Spagna in cerca di tesori “vagavano come sugheri sull’acqua”. Non è difficile inquadrare queste mappe e queste storie di sofferenze da un punto di vista umano e antropologico: il desiderio di riscatto, il bisogno di far carriera o di sfuggire all’autorità costituita, ma anche l’esigenza di sfruttare nuovi luoghi e impadronirsi di risorse all’alba del mercantilismo. Tutte queste prospettive di cambiamento si sono nutrite di un campionario di immagini pronte a motivare i diversi strati della società. Un immaginario che, oltre alle aspettative e ai sogni di una vita nuova, lascia trasparire anche alcuni degli aspetti più odiosi del colonialismo, presenti fin dal primo momento e capaci di condizionare il flusso storico successivo di questi territori con le loro popolazioni.

Nel caso delle Sette Città di Cibola possiamo apprezzare il fatto che la cartografia è anche un modo dell’uomo di proiettarsi nell’ambiente, rendendo la carta geografica un simbolo dell’esistenza umana e uno strumento di orientamento culturale oltre che geografico.

No, quelle mappe, costruite anche di cose fantasticate e sognate non sono “sbagliate”: rappresentano fin troppo bene non tanto e non solo la geografia di parte del Nuovo Mondo; ma sono intrise dei sogni e delle intenzioni comuni a diversi strati sociali delle monarchie europee al momento delle scoperte geografiche.

Nell’immagine: dettaglio della Carta dell’America Settentrionale, di Nicolas Sanson d’Abbeville, redatta nel 1650, oltre un secolo dopo le vicende di Fra Marco da Nizza e Coronado. Si può notare che la penisola della Bassa California è indicata ancora come un’isola, mentre sui territori inesplorati a Nord del Messico (in corrispondenza con l’Arizona) campeggia il nome “Cibola”. Il nome di Quivira compare invece più ad est, nel territorio dell’attuale Texas.