testo e foto di Alessandra Alabiso

 

Israele e Palestina sono terre dalle mille contraddizioni. Difficili da capire per alcuni, impossibili per altri. Quel che è certo è che le questioni politiche mondiali, con la loro ingente portata, ne oscurano il volto più semplice. Forse solo un viaggio può restituirne un ritratto autentico. Queste le considerazioni che hanno dato il via alla ricerca errabonda (durata dal 27 dicembre al 3 gennaio scorso) mia e di Lorenzo. Lui: concittadino bresciano, instancabile indagatore dell’uomo ed eccezionale studioso di latino, con cui ho condiviso il mio primo viaggio nella Città Eterna. Io: precaria insegnante, laureata in filologia, sempre curiosa e di raro ferma, con un’inestinguibile passione per il reportage e la fotografia.

Martedì 2 gennaio 2018: sveglia presto, colazione al volo e siamo pronti. Fra le vie di Gerusalemme ci avviamo alla porta di Damasco e da lì proseguiamo verso la stazione dei Pullman. Prendiamo il bus 231 diretto a Betlemme. Non appena arrivati, i tassisti ci chiedono dove siamo diretti e alla nostra risposta replicano: “Hebron? È troppo pericolosa. Non potete andare da soli!” Non diamo troppo peso alle loro parole, sappiamo bene che fa parte del loro lavoro creare un po’ di panico fra noi stranieri. Non curanti, ci avviamo al furgoncino sconsigliato. Fra il traffico congestionato siamo accompagnati da musica araba, che presto però si trasforma in una predica, a tutto volume, di un muezzin. Ci guardiamo attorno: siamo giunti alla meta. Seguiamo i cartelli che indicano center – old town. Non abbiamo una cartina, camminiamo seguendo l’ispirazione del momento. Incontriamo una vetreria, poi un uomo che ci invita a entrare nel Museo locale dell’olio. Qui, ci danno una mappa della città e ci offrono una guida della stessa. Accettiamo. Ed ecco che sotto la pioggia arriva un ragazzo con l’impermeabile beige e una kefiah viola. Ci accoglie con un sorriso, ci stringe la mano e ci ringrazia per la nostra presenza.

Hayman ci dice di essere un attivista dell’Hebron Peace Center, un’ONG locale che combatte per garantire i diritti umani degli (ormai pochi) abitanti palestinesi del settore H2 di Hebron. La città è infatti divisa in due grandi blocchi. Da una parte la zona H1 (circa l’80% del territorio), in cui vive la maggior parte della popolazione palestinese, che si trova in una situazione di relativa normalità; dall’altra la zona H2, il cui accesso è completamente militarizzato: ci sono ben 22 checkpoint a delimitarla. Quest’area è infatti sotto il controllo delle autorità israeliane per garantire la sorveglianza sulla colonia di Kiryat Arba, insediata da circa settemila ebrei ultraortodossi, ritornati in Cisgiordania per recuperare il controllo della Tomba dei patriarchi.

Camminiamo svelti fra la folla, finché giungiamo in un vicolo stretto. Qui svetta un reticolato di ferro, sormontato da filo spinato ricolmo di spazzatura. Intravediamo la zona H2: oltre la cancellata le case sono abbandonate. Sulle pareti crescono piante arrampicanti, che si inerpicano fra i vetri rotti delle loro finestre, un tempo protagoniste di sobrie ed eleganti facciate in pietra. Altro sporco ammassato appesantisce l’aria. Il degrado ci circonda, il senso di desolazione avrebbe la meglio se non vi fossero murales di riscossa. I motti sui muri celebrano la resistenza alla colonizzazione come un atto eroico.  Rimango frastornata da quello che vedo, ma percepisco i passi dei ragazzi allontanarsi: mi muovo anch’io. Saliamo un’impervia scalinata ed entriamo in una casa. Ci accoglie un palestinese; entriamo in una stanza, dove sedute ci sono altre persone. Il padrone di casa offre a tutti noi un tè caldo con la menta, mentre racconta la sua storia. Mi stupisce sentire che abbia rifiutato quattro milioni di dollari dai coloni, pur di non lasciare la propria casa. Molti hanno accettato, alcuni hanno desistito a lungo, ma la difficoltà di vivere nella zona H2 li ha portati a migrare verso la città nuova. Gli innumerevoli posti di blocco hanno inevitabilmente fiaccato gli animi e l’economia palestinese.  Una volta congedati dal grande, grosso e coraggioso sarto, ci dirigiamo per strada, dove c’è un uomo con suo figlio: la fierezza dei loro sguardi è penetrante e indelebile nel ricordo. Fanno sandwich con falafel e melanzane. La nostra guida ci consiglia di fermarci a mangiarli. Seguiamo il suo suggerimento, che si rivela azzeccato. Per soli 5nis consumiamo il pasto più buono del nostro viaggio. Davanti a noi si profila un checkpoint; passiamo il tornello ad uno ad uno. I soldati fanno a me e a Lorenzo qualche domanda di rito, ma nessuna questione particolare; il passaporto italiano ci fa da lasciapassare.  Ci muoviamo fra le anguste vie del decrepito mercato arabo: grate di ferro ne travalicano le sommità, perché dall’alto spesso partono “sassaiole” e lanci di spazzatura da parte degli ebrei ultraortodossi. Un venditore mi ferma e mi chiede di fotografare, di raccontare a casa ciò che vedo. Mi chiede di dire all’Occidente che loro non sono dei terroristi, che non hanno nulla a che vedere con l’ISIS e che ad essere corrotta è la politica: disinteressata a garantire una vita normale ai cittadini di Hebron. Entriamo in una stanza arredata essenzialmente, dove appare un uomo distinto: giacca nera, camicia bianca e cravatta rossa. Sguardo serio e fronte solcata da rare rughe eleganti. Porta alla bocca una sigaretta e inspira il tabacco attraverso un bocchino dorato. L’attempato professore, attraverso un’orazione toccante, cattura la nostra attenzione e ci sprona a sostenere la causa di Hebron. Ci strappa la promessa di non tacere ciò che vediamo. Dopo poco siamo raggiunti da un ragazzino poco più che adolescente, Hayman ci invita a seguirlo. Lui non può varcare il prossimo tornello, perché lo arresterebbero (ha sobillato troppe proteste nei giorni precedenti). Una famiglia dell’area H2 ci ospita per pranzo: in una piccola sala ricolma di poltrone e divani, assaggiamo i piatti tipici del posto. Siamo esterrefatti dalla povertà della casa, ma ancora di più dalla desolazione di quel luogo.

Al di fuori, bambini attorno al fuoco chiacchierano fra di loro. Mi colpisce uno di questi: bandana in testa, giubbotto troppo grande per il suo corpo e occhi di chi nella vita sa muoversi con destrezza, di chi è molto più grande dei suoi coetanei. Lo faccio arrabbiare, perché gli scatto una foto. La nostra guida lo zittisce. Gli volto le spalle con l’amaro in bocca: quanta rabbia. Hayman ci viene a recuperare, ma ci fa accompagnare da un altro attivista: insegnante di matematica e fisica. La sua fisionomia appare europea, ma l’apparenza inganna: è un palestinese doc. Il professore porta me e Lorenzo alla moschea di Al-Ibrahimi, luogo conteso e diviso fra sionisti e palestinesi. Qui, secondo la tradizione, vi sono le tombe dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe. Mi danno un lungo mantello col cappuccio, che devo indossare. Per la prima volta nella mia vita, mi avventuro scalza sui tappeti preziosi di una moschea: mi circondano molte donne arabe e uomini sparsi qua e là. Facciamo in fretta, è quasi il momento della preghiera. A breve dobbiamo essere fuori; a noi non è concesso restare. Usciamo. Casualmente fra le vie di Hebron incontriamo Luisa Morgantini, deputata del Parlamento europeo. Si trova in città con un gruppo di italiani, curiosi di conoscere meglio la West Bank. Scambiamo qualche parola con lei e con Izzat, membro dell’organizzazione non violenta Youth against settlements. Ci racconta che l’associazione mira a incentivare il flusso di turismo nella città, per far sì che Hebron possa ridestarsi dalla paralisi economica in cui si ristagna. Ormai è tardi, dobbiamo andare: l’ultimo pullman per Gerusalemme parte da Betlemme alle 20.00 precise. Izzat si offre di accompagnarci alla stazione. Accettiamo la sua proposta. Arrivati a destinazione scopriamo che abbiamo perso l’ultimo bus; il nostro amico riesce ad intercedere per noi con gli autisti, così ci avventuriamo su un pullminetto di fortuna. Stretta di mano con Izzat e via, si parte verso casa. Quella “vecchia carretta” aveva sotto un motore ancora fuoco e fiamme, così in un batter d’occhio siamo giunti a Betlemme. Scatto di corsa: autobus 231 preso per una frazione di secondo. Oltrepassiamo il checkpoint che divide la Palestina da Israele. Una coppia di spagnoli esita nel mostrare il passaporto ai soldati: vengono fatti scendere dal pullman. Non ci tratteniamo a lungo. Gli spagnoli e i palestinesi risalgono: i primi evidentemente corrucciati; i secondi, abituati, come se nulla fosse.  Arriviamo a destinazione. Ci sediamo vicino alla stazione: prendiamo un tè caldo d’asporto; dobbiamo scaldarci. Siamo infreddoliti dalla pioggia che ci ha accompagnati tutto il giorno. Davanti a Damasco gate mi blocco, alzo gli occhi verso quella meravigliosa porta e ammutolisco. So che questo luogo dalle mille contraddizioni mi mancherà. Inspiro, cercando di fare entrare dentro di me un po’ di Gerusalemme, per non scordarmene, per portarla a casa con me.

 Alessandra Alabiso, nata a Brescia nel 1990, laureata in filologia e, attualmente, insegnante montessoriana è appassionata di viaggi, fotografia e reportage.