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Testo di Valentina Cabiale

È una cartolina arrivata in ritardo, molto in ritardo. Non ha neppure un’immagine, perché la macchina fotografica inspiegabilmente mi si è inceppata il primo giorno, dopo una decina di scatti, davanti al portale della chiesa scoperchiata del Carmo, e altrettanto inspiegabilmente ha ricominciato a funzionare in Italia, qualche settimana dopo. La cartolina, pertanto, è un rettangolo bianco. Bianco e non nero perché il bianco è la somma di tutti i colori ed è il più adatto a ritrarre il cromatismo di Lisbona sotto il sole, ma anche la Lisbona sotto le nuvole, quella di fine novembre, che ho visto. La Lisbona di Pessoa che muore.

Non so descriverla. Lisbona è una città piena di punti panoramici, una Trieste a oriente dell’Oriente che si guarda in continuazione. Le linee del tram dividono in strisce il cielo sopra le piazze. Le discese lisce o a scalini diventano salite che a un certo punto si fanno tonde e convesse e non vedi dove portano. Le chiese sono fastidiose, strabordano rivestimenti dorati, con balaustrate da mirador in legno bruciato che separano le panche dalle cappelle laterali. Ma io sono contenta, penso: Fuori, hanno lasciato tutto fuori. Esco dalla chiesa di S. Caterina e la luce acceca, persino in autunno.

Lisbona è illuminata di luce propria. È uno spazio bianco in movimento che sgretola i timori, inietta un desiderio di vedere, un siero che spinge a salpare. Non può essere un caso se in tanti sono partiti da qui. È curioso, però, che il più grande poeta di un popolo di navigatori ed esploratori sia un sedentario che per principio, come ha scritto Antonio Tabucchi, non ha mai voluto viaggiare e ha vissuto l’intera vita di adulto a Lisbona. Sono memorabili i passi che Fernando Pessoa (anzi, Bernardo Soares, suo eteronimo) ha dedicato al non-viaggiare:

Ah, viaggino coloro che non esistono! Per chi non è niente, scorrere, come un fiume, deve essere la vita. Ma coloro che pensano e sentono, quelli che sono desti, l’orribile isteria dei treni, delle automobili, delle navi, non li fa né dormire né svegliare. (…) Eterni viandanti di noi stessi, non esiste altro paesaggio se non quello che siamo. Non possediamo nulla, perché non possediamo neppure noi stessi. Non abbiamo niente perché non siamo niente. Verso quale universo potrei mai tendere la mano? L’universo non è mio: sono io. (…)
Che cos’è viaggiare e a cosa serve viaggiare? Qualsiasi tramonto è il tramonto; non è necessario andarlo a vedere a Costantinopoli. La sensazione di liberazione, nasce forse dai viaggi? Posso averla andando da Lisbona a Benefica e provarla in modo più intenso di colui che va da Lisbona fino alla Cina, perché se la liberazione non è dentro di me, secondo me, non è da nessuna parte. “Qualsiasi strada”, ha detto Carlyle, “persino questa strada di Entepfuhl, ti porta fino alla fine del mondo”. Ma la strada di Entepfuhl, se venisse percorsa tutta e fino alla fine, tornerebbe a Entepfuhl; di conseguenza Entepfuhl, dove già ci trovavamo, è quella stessa fine del mondo che cercavamo. (…) Chi ha solcato tutti i mari ha solcato solo monotonia di se stesso. Io ho già solcato più mari di chiunque altro. Ho già visto più montagne di quante ne esistano sulla terra. Ho già attraversato più città di quelle esistenti e grandi fiumi di monti inesistenti sono scorsi, assoluti, sotto i miei occhi contemplativi. Se viaggiassi, incontrerei la copia sbiadita di quanto ho già visto senza viaggiare.

Forse Bernardo Soares non immaginava (non sono sicura che fosse lo stesso per Pessoa) la bellezza della fisicità del viaggiare, del corpo che cammina, i piedi che percorrono distanze e gli oggetti visivi che entrano negli occhi.
L’ultima casa di Pessoa è nella Lisbona più alta, oltre il capolinea del tram 28. Poco distante dai giardini di Estrela, dove oggi si può bere il tè in un chiosco vicino a uno stagno dove nuotano papere di ogni dimensione e colore. La casa è stata adattata a museo, contiene una biblioteca e un centro studi; sulla facciata bianca hanno dipinto i suoi versi. È essenziale, nuda. Ci sono stata, per caso, il 29 novembre.

Il 29 novembre 1935  Fernando Pessoa viene ricoverato nell’ospedale francese di Lisbona per febbri e dolori addominali. Qui scrive le sue ultime parole, in inglese. I know not what tomorrow will bring (non so cosa porterà il domani). Il 30 novembre, a 47 anni, muore. Chiese gli occhiali e si addormentò, come ha cantato Vecchioni.
Dal 1985 è sepolto nel monastero dei Gerosolimitani, davanti al quale nel ‘ 500 salpavano i navigatori; le sue ossa vi sono state traslate, cinquant’anni dopo la morte, dal cimitero cittadino dei Prazeres, dove Pessoa era stato seppellito accanto alla tomba della nonna Dionisia Seabra, morta pazza nel 1907.
L’hanno messo vicino alle principali glorie nazionali, a Vasco de Gama. Chissà se gli sarebbe piaciuto essere qui dove tutto è scherzo nella luce del tardo pomeriggio che batte sulle pietre di sabbia, sulle volte e sugli archi che si scompongono.Nell’interno della chiesa l’intreccio dei costoloni annulla le divisioni in navate, in campate, tra navata e transetto; è un po’ come la città ragnatela di Calvino, Bauci: le colonne sembrano i fili pendenti che si vedono dal basso.

Che gioia essere rimasta senza macchina fotografica: so che non avrò ricordi da pellicola – come si sarebbe detto un tempo -, non ho guardato cercando di racchiudere in una cornice qualche volto ignoto o presunti imprevisti accostamenti di luoghi ed esseri viventi – quegli accostamenti rivelatori che tante volte speriamo e crediamo di scorgere, noi soli e per primi; né ho provato l’imbarazzo e il senso di inadeguatezza nello scoprire di non saperli trovare.
Il viaggio è stato breve ed è inequivocabilmente finito. E so bene, l’ha già scritto Pessoa, che questa città allegra e triste mi rimarrà sconosciuta, le strade sempre nuove, e la malattia senza rimedio.