Testo e foto di Alessandro Balduzzi

La ricordavo dalla Fallaci piazza delle Tre Culture, teatro nel 1968 di proteste antigovernative e di una sanguinosa repressione poliziesca. A terra rimasero centinaia di morti e un migliaio di feriti; tra questi ultimi la giornalista fiorentina lì per documentare. A poca distanza dalla stazione Tlatelolco della metropolitana, l’omonimo sito archeologico precolombiano, affiancato dal Colegio de Santa Cruz de Tlatelolco eretto dai conquistatori spagnoli nel XVI secolo, dalla torre Tlatelolco e da un complesso residenziale giallo limone edificati nel Novecento. Tlatelolco, Tlatelolco, Tlatelolco: toponomastica mesoamericana che riecheggia come lo scalpiccio di zoccoli di un cavallo in una megalopoli da venti milioni di abitanti. Piazza delle Tre Culture è una quinta teatrale che unisce resti dell’antica capitale azteca Tenochtitlán, retaggio spagnolo e Messico contemporaneo in un’architettura fattasi strumento di promozione di un presunto meticciato. Il Messico Paese arcobaleno come un Sudafrica da cartolina? Solo in una certa propaganda, e neppure tanto convincente.

Quanto al sottoscritto, l’unica immagine di Città del Messico prima di sbarcare alla Central de Autobuses del Norte, era in bianco e nero. Il bianco e nero di “Roma”, film di Alfonso Cuarón intitolato al quartiere bene della capitale e splendente di un’assenza di colore incapace di appiattire le differenze di ceto. “Roma” racconta di una famiglia della borghesia di CDMX (abbreviazione di Ciudad de Mexico, fingendo confidenza come altrove si usa con NYC) e tratteggia rapporti di classi e gerarchie nel Messico degli anni Settanta. Al centro della vicenda, Cleo, domestica dai tratti chiaramente “indigeni” che immola sé stessa alla famiglia presso la quale presta servizio. Una famiglia benestante i cui membri – la biochimica tradita dal marito medico fedifrago, i bambini alias Alfonso e i suoi fratelli – presentano tratti decisamente “europei”. E proprio tra queste virgolette e il mio divano si è inserito un ingenuo interrogativo da spettatore occidentale: che faccia ha il Messico?

Un mese dopo la visione del film, mi lascia perplesso il campionario di volti che alle sei di mattina affolla la metro della capitale. Impastate dal sonno, le facce dei pendolari del sottosuolo non mi sembrano molto diverse da quelle viste nelle due settimane precedenti nello Yucatán o nel Chiapas: non lo è la pelle bruna, né gli occhi allungati, né le labbra carnose. Un secondo. Ecco laggiù un paio di visi “occidentali”, seppur stranamente piatti, quasi bidimensionali. Ma alla mia miopia basta poco per capire che si tratta della carta stampata di una pubblicità.

In effetti, che altro è se non maldestra pubblicità governativa vendere il Paese come terra di un riuscito meticciato tra ex colonizzatore e colonizzato che accomunerebbe tutti i messicani giustificando l’accentramento del potere politico? Peccato che quest’ultimo sia detenuto da mani “bianche”, bianche come le facce della TV, del cinema, dei cavalieri d’industria. Dei milioni di indigeni che abitano il Paese basta ricordarsi in visita ai siti archeologici, e del passato azteco al Zócalo, dove il potere esecutivo di casa al Palacio Nacional e il cattolicesimo d’importazione spagnola della Cattedrale formano un manifesto tripartito con il Templo Mayor, tempio principale della fu capitale azteca. Un bignami del sedicente rispetto multietnico: tutti meticci, nessuno meticcio.

O forse alcuni meticci sono più uguali degli altri?