Testo di Valentina Cabiale

Un secolo fa, il 22 novembre 1916, moriva Jack London. Aveva 40 anni e aveva scritto una cinquantina di volumi tra romanzi, saggi, raccolte di racconti, opere teatrali. Era stato lavandaio, pugile, pescatore di ostriche, cacciatore di foche, vagabondo nel Nord America e cercatore d’oro nel Klondike,  oltre che scrittore, giornalista e corrispondente di guerra.

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Nel 1905 aveva acquistato una tenuta sulle colline intorno a San Francisco. L’aveva rinominata Beauty Ranch e aveva cercato di organizzarla come un’azienda ideale, lanciandosi in sperimentazioni  di agricoltura sostenibile e ambientalistica. Fu un fallimento economico ma molte di quelle scelte appaiono oggi all’avanguardia, deliziosamente fuori luogo a inizio Novecento e in piena rivoluzione industriale. Ad esempio volle utilizzare soltanto concimi naturali, per immagazzinare i quali fece costruire enormi silos a torre, in cemento, i primi del genere costruiti in California. L’anno prima di morire fece edificare un porcile innovativo da un punto di vista igienico-sanitario. Alcuni giornalisti lo chiamarono ironicamente “Pig Palace”, il palazzo dei maiali. Ogni maiale aveva uno spazio singolo, diviso in una stanza coperta e in un recinto esterno con portico rivolto a sud. Gli appartamenti, predisposti per 200 maiali, erano disposti a cerchio intorno a un cortile dove si trovava la mangiatoia comune. Oggi l’azienda di Jack London è diventata un parco letterario (Jack London State Historic Park) e il Pig Palace è ancora visibile.

Ostracizzato per anni in America per le sue idee socialiste, London profetizzò la caduta del capitalismo entro gli anni Duemila. A colpirlo era soprattutto lo sfruttamento lavorativo delle classi sociali più basse e il degrado morale che accompagnava inevitabilmente quel degrado economico. Ne Il popolo degli abissi descrisse la situazione di disperazione e di abbietta povertà nella quale viveva la maggior parte della popolazione londinese a inizio ‘900. Non per sentito dire. Nell’estate del 1902 si fece portare nell’East End, il quartiere proletario dove qualche decennio prima si era aggirato Jack lo Squartatore. Comprò da un rigattiere un paio di pantaloni lisi e rattoppati, una giacca da cui pendeva un bottone solitario, scarpe usate e un berretto di panno unto e bisunto. Così vestito, condivise per alcune settimane la vita di disoccupati e operai, facendo la coda per una minestra e per un letto nei dormitori.

Qualcuno ha affermato” – scriverà nella premessa del libro – “che le mie critiche alla situazione inglese sono viziate da un eccesso di pessimismo. Sarà dunque bene che io ricordi al lettore che sono in realtà il più ottimista degli ottimisti. Ma sono anche solito misurare l’umanità più sul metro dell’individuo che su quello delle aggregazioni politiche: la società cresce e si sviluppa, gli apparati politici si sgretolano e divengono semplici rottami di nessuna utilità. Vedo un futuro radioso per il popolo inglese, per i suoi uomini e le sue donne, per ciò che riguarda la loro salute, la loro felicità, le loro condizioni di vita. Ma per gran parte della macchina politica che è responsabile davanti a loro di una così cattiva direzione e amministrazione, vedo solo il mucchio degli scarti e dei rottami.”

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Fu scrittore e uomo quanto mai inclusivo e contraddittorio.  Disperatamente credeva nel progresso, nel mondo nuovo americano, nella nobiltà dell’animo umano e nella possibilità di una rivoluzione, di una salvezza, di una fuga.

Adorava dibattere e argomentare” – ha scritto Davide Sapienza – “si ritrovava con gli amici, e faceva precisamente questo: spesso concludeva una bella e accalorata discussione dicendo, ‘sto da entrambe le parti’. Perché aveva capito: capito che siamo nati con due mani, due gambe, due occhi, due orecchie, due narici. E anche con due menti, una nel cervello e l’altra nello stomaco”.

Era capace di vedere nitidamente il passato e di descriverlo senza artifici. Di ancorarlo al presente. Non solo in senso metaforico.  Tutti i suoi romanzi partono dal presente o tutt’al più dal futuro. Le narrazioni storiche prendono avvio da una visione, un sogno o un’ascesi mistica di un protagonista che vive nel presente. Così accade nel suo romanzo forse più bello, Il vagabondo delle stelle, una scatola che contiene tanti romanzi e incursioni storiche nell’epoca romana, nella saghe nordiche, nel Settecento e nell’epopea western ma è tutto ambientato in una cella d’isolamento di un carcere di massima sicurezza in California. O in Prima di Adamo, il racconto della vita di un ragazzo in piena preistoria, a cui tanti si sono ispirati (da Roy Lewis a Italo Calvino) ma tagliando il meccanismo letterario che permetteva l’ancoraggio al presente (in London il protagonista è un ragazzo contemporaneo, che rivive le esperienze di quell’altro sé ancestrale in una sorta di transfert onirico). Jack London era di un realismo estremo: il passato doveva trapassare il presente o non serviva, non era credibile, non poteva avere nulla a che fare con noi.

Le decine di versioni illustrate di Zanna Bianca e Il richiamo della foresta sono state forse un tentativo per confinarlo nella categoria degli scrittori per ragazzi. E lo è, scrittore per ragazzi, soltanto in quanto ragazzi siamo tutti quanti e ragazzi rimaniamo – nella migliore delle ipotesi. Oggi la scelta di ergere gli animali a protagonisti di racconti e romanzi – e che memorabili protagonisti! –non è più rivoluzionaria. Ma London dovette difendersi da chi lo accusava di aver dato umanità e dignità agli animali. In un’epoca in cui, seguendo una visione distorta della teoria darwiniana dell’evoluzione, si riteneva che il posto dell’uomo nel mondo fosse – in assoluta solitudine – il vertice della scala evolutiva, egli affermò che gli animali erano dotati di intelligenza e non soltanto di istinto.  Forse aveva compreso che, dopo Darwin, l’uomo non è più al centro del mondo e non lo è mai stato sul serio.

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Non piegò il suo talento letterario a forme di intellettualismo elitario. Non ebbe paura di essere popolare. Tutti possono leggere Jack London. L’unico rischio che si corre è di imbarazzarsi della sua autenticità. La strada, un racconto autobiografico dove descrisse gli anni di vagabondaggio, in gioventù, nel nord degli Stati Uniti, fa apparire Jack Kerouac e la beat generation pallidi, patinati, decadenti.

Infine, gli dobbiamo il suicidio più bello della storia della letteratura.

Martin Eden guarda l’oblò. E’ abbastanza largo, pensa. Vede il mare color di latte e si lascia scivolare sulla superficie dell’acqua con i piedi avanti. Poi si immerge, nuota verso il basso, giù giù fino a che gli sarà impossibile risalire e salvarsi, anche se lo vorrà non farà in tempo a ritornare a galla. Un suicidio quasi impossibile. Estremo come estrema è la sua volontà di scomparire, distruggersi, non sentire più la sete di conoscenza e di verità. La fine è un’abbagliante luce bianca nel suo cervello, poi un boato e in fondo, in fondo, il buio. “E nell’istante in cui seppe, cessò di sapere”.

Quanto ci manca, Jack London.