di Fabio Bertino e  Roberta Melchiorre

(autori dell’ebook “World zapping. Racconti di viaggio”, goWare editore)

 (7)

Teatro_Bolshoi

E’ una nuvolosa mattina di fine settembre e siamo in attesa che, alle 10, la biglietteria apra gli sportelli. Il cielo è scuro di pioggia e soffia un vento gelido. Il termometro digitale segna appena un grado sopra lo zero. Cerchiamo un po’ di riparo tra l’imponente colonnato squadrato, dove una targa ricorda che l’edificio è stato ultimato nel 1939. Ad aspettare, oltre a noi, ci sono due ragazze con lunghi capelli biondi ed una coppia attempata. Lui con colbacco grigio e cappotto pesante, lei con una monumentale pettinatura a choucroute che ostenta con orgoglio. Poco dopo arrivano due ragazzini tenendosi per mano. Avranno al massimo sedici anni, lei probabilmente meno. Otto persone in coda per un biglietto all’Opera in un rigido giorno feriale ci sembrano un vero evento.

E lo spettacolo non è certo di quelli leggeri.  Il principe Igor di Aleksander Porfir’evic Borodin. Un’opera in due atti basata sull’anonimo poema del XII secolo Il canto della schiera di Igor, uno dei testi sacri dell’epopea slava. “180.000 rubli”. Quando l’addetta alla biglietteria dice il prezzo dei nostri due posti crediamo di aver capito male. Ce lo facciamo ripetere, ma il costo è proprio quello. L’equivalente di 7 euro a testa per una poltrona in ottima posizione nella parte anteriore del parterre. E ci sono posti ancora più economici a meno di 3 euro, mentre i migliori si possono avere per 500.000 rubli. 40 euro. Mancano due giorni alla rappresentazione ed i biglietti sono quasi esauriti. Non siamo al Bolshoi di Mosca, ma anche il suo omonimo di Minsk è un teatro di tutto rispetto. In cartellone per questa stagione ci sono Mozart, Tchaikovsky, Puccini e Verdi, la Carmen di Bizet e il Bolero di Ravel. Con interpreti di livello internazionale.

Nell’immaginario di molti Minsk è uno dei simboli del grigiore staliniano, e di certo il compatto parallelepipedo di cemento del Palazzo della Repubblica in Piazza Oktyabrskaya, le severe forme cubiche del Palazzo del Governo di Piazza dell’Indipendenza o i busti di Feliks Dzerzhinskiy, fondatore della polizia segreta sovietica Ceka, che si incontrano qua e là in città, non aiutano a smentire questa impressione. Che è però immeritata. Minsk è infatti una delle aree urbane più verdi d’Europa, ricca di parchi e di giardini pubblici. Come il grande Parco Gorkij con le giostre e la ruota panoramica, il Parco Yanka Kupala con le sculture ed i vialetti fra gli alberi, l’enorme Giardino botanico, il Parco Cheliuskintsev, quello Loshitskij o il Mikhlovskij.

Ci sono oltre 20 musei, sale per concerti, l’immensa Biblioteca Nazionale che nei suoi 22 piani custodisce oltre 8 milioni di volumi.  Non poco, per una grigia città staliniana. E poi ci sono i teatri. Più di 30 per meno di due milioni di abitanti.

Oltre al Bolshoi, il Teatro Accademico Nazionale Yanka Kupala, il Teatro Statale Musicale, quelli di Drammaturgia Bielorussa, del Cinema d’autore, delle Marionette, il Teatro Drammatico Maksim Gorkij. C’è anche un Museo Statale di Storia del Teatro e della Musica del Belarus. Qui si è mantenuta la grande popolarità di cui il teatro godeva in URSS, dove rappresentava al tempo stesso svago e cultura, strumento di propaganda e luogo di dissenso.

I biglietti sono in vendita anche in diversi uffici pubblici, alle fermate della metropolitana e nel Palazzo della Repubblica, mentre su bus e metro, accanto alla pubblicità di grandi magazzini, negozi di elettrodomestici e saloni di bellezza, non mancano i programmi dei prossimi spettacoli.  Anche l’orario favorisce gli spettatori. Opera e balletti iniziano infatti alle 19, sempre con puntualità.

Così, due giorni dopo, facciamo il nostro ingresso al Teatro Nazionale Bolshoi di Opera e Balletto di Minsk. Il grande edificio chiaro a pianta circolare ai margini del Parco Yanka Kupala è un esempio di architettura costruttivista sovietica. L’interno è proprio come ce lo aspettavamo. Marmi bianchi, fregi d’oro e velluti rossi.

Raggiungiamo i nostri posti, nel bel mezzo di un gruppo di signore di mezza età che discorrono fittamente fra loro, euforiche per la serata che le attende. Gli spettatori sono già quasi tutti arrivati. I 1.200 posti del teatro devono essere interamente occupati. Il pubblico rappresenta un po’ una metafora della società post sovietica, ancora in lento ed incerto assestamento. Non mancano uomini dall’eleganza ostentata e un po’ kitsch e vamp biondissime con minigonna d’ordinanza. Ma prevalgono nettamente le persone comuni. Vecchiette con maglioni di lana grossa, signori in abiti un po’ demodé, molti giovani in jeans.  C’è anche qualche famiglia con bambini. Le donne, da sole o in gruppo, sono la maggioranza.

C’è una bella atmosfera, rilassata ed allegra. La gente chiacchiera, legge il libretto, fotografa la sala. Ma quando inizia la rappresentazione si dimostra attenta e appassionata. Si commuove per la disperazione di Jaroslavna, moglie di Igor, quando il Principe viene sconfitto e fatto prigioniero; fissa il palco ipnotizzata durante le splendide “danze polovesiane”; si emoziona per il difficile amore fra Vladimir, figlio di Igor, e Konchakovna, figlia del Khan nemico Konchak. Soprattutto applaude entusiasta la vigorosa voce baritonale del Principe, quella profonda da basso del Khan ed i potenti acuti tenorili di Vladimir.

Durante l’intervallo raggiungiamo uno degli eleganti bar del foyer e ordiniamo due bicchieri di sovetskoye shampanskoye, lo “champagne” a buon mercato di epoca sovietica che resta una bevanda diffusissima. Nel tavolino a fianco un gruppo di anziane signore mangia con gusto delle vatrushka, le ciambelle ripiene di ricotta.                 Ci sentono parlare e una di loro chiede da dove veniamo. Glielo diciamo e le si illumina lo sguardo. “Lo sapevo! Ah l’opera italiana” esclama felice “due settimane fa, proprio qui, ho visto la Turandot. Che meraviglia!”. In quanto italiani ci considera automaticamente grandi amanti dell’Opera. Ci racconta il suo amore per la lirica del nostro paese, la passione per Rossini, Verdi, Donizetti e Puccini, “soprattutto la Madama Butterfly”, il sogno di poter un giorno assistere a La Bohème o a Il Barbiere di Siviglia a La Fenice di Venezia. Non vogliamo deluderla, e non le parliamo dello stato in cui versa la lirica nel paese del bel canto e di quale immenso patrimonio culturale stiamo dilapidando. Della continua riduzione di fondi e personale, della crisi delle Fondazioni liriche, della situazione in cui si trovano gioielli quali il Carlo Felice di Genova, il San Carlo di Napoli, il Massimo di Palermo o la Scala di Milano.

Ci torna in mente un episodio di un paio di anni fa quando, su un volo da Novosibirsk a Mosca, ci siamo trovati accanto ad un tenore romano di ritorno da una esibizione al Teatro dell’Opera e del Balletto della città siberiana. Ricordiamo il suo stupore per l’entusiasmo travolgente con cui era stato accolto, per il teatro traboccante di pubblico e l’euforia degli spettatori. Cosa che, ci aveva raccontato, in Italia non gli capitava più da anni.

Finito l’intervallo ritorniamo ai nostri posti. Secondo atto ed epilogo sembrano finire in pochi minuti. Al termine gli applausi si prolungano per più di un quarto d’ora. Il pubblico, in piedi, batte ritmicamente le mani scandendo “Bravo, bravo” all’indirizzo degli artisti, e ci sono mazzi di fiori per tutti gli interpreti principali. All’uscita non troviamo file di taxi ed auto di lusso in attesa. Ci incamminiamo invece con gli altri spettatori verso la fermata della metropolitana. Con la sensazione di aver condiviso una serata speciale.

[gdl_gallery title=”minsk” width=”IMAGE_SRC” height=”IMAGE_HEIGHT” ]