Testo di Claudia Mattolin

What is Tibetan Art? We need more voices in [the] West about Tibetan Art and individuals (…). What is [the] future of Tibetan artists, Art, its intellectual property and Tibet itself? After all, what is Tibetan Art if Tibetan artists have no Voice in [the] West?’.

La prima volta che riuscii a parlare con Pema Rinzin, artista tibetano, era una sera di marzo. Primavera italiana. Lui era a New York, un assolato pomeriggio newyorkese. Da alcune settimane non era più possibile né viaggiare, né incontrarsi. L’Italia era in lockdown. Ero preoccupata per quanto stava accadendo al nostro paese, ero in ansia per questa intervista.

Timore infondato, dissipato da una piacevole conversazione in un inglese semplice e dal vago sapore orientale. Riuscii a ottenere ben poche delle informazioni che mi ero prefissata. Dovemmo, quindi fissare ulteriori incontri.

Nella finestra azzurrina di Messenger, Pema appariva come un uomo di mezz’età, sorridente, dagli occhiali leggermente buffi e con l’immancabile tazza di tè in mano. Sullo sfondo un cavalletto con un pannello ancora vuoto, pochi tratti di matita appena accennati alla parete: era Abstract Sound 3, una delle sue opere astratte più recenti. A destra, leggermente nascosto, un tavolino trasformato in un campo di una battaglia cromatica: pigmenti di tutte le sfumature riempivano ciotole di ogni dimensione, pennelli e pestelli ovunque, in bilico tra i contenitori e boccette d’inchiostro aperte in precario equilibrio.

Quando, di tanto in tanto, Pema scompariva per andare alla ricerca di una rivista o di un libro specifico, la scena statica sullo schermo, era scossa da rumore di carte, scatole e scaffali ribaltati, poi l’artista tornava, faceva capolino con in mano un titolo diverso da quello promesso. Di certo non posso dire di essermi annoiata, anzi.

P.Rinzin, Abstract Sound 3, 2010, pigmenti naturali e oro su pannello di legno, 61 x 121.9 cm.

Pema Rinzin è un artista che utilizza i social media, Facebook e Instagran, in maniera quasi preveggente e contemporanea. Va oltre la produzione artistica religiosa buddhista tradizionale incarnata dalle thangka, dipinti su tela, la cui funzione principale è di ricettacolo e supporto fisico per i buddha e le divinità.

La scena artistica tibetana, si presenta molto più complessa di quanto immagina l’aspirante buddhista occidentale affascinato dall’aura esoterica e sacra del Tetto del Mondo: in realtà comprende sia l’arte sacra secolare buddhista sia l’arte nella sua forma espressiva moderno-contemporanea.

Pema ha 54 anni. Dal 2005, vive negli Stati Uniti. Nel 2007 istituì a Brooklyn il New York Tibetan Art Studio dove insegna l’arte tradizionale buddhista. I suoi lavori riflettono la propria esperienza: gli anni dell’infanzia trascorsi a Dharamshala, capitale della comunità tibetana in esilio in India, nell’Himachal Pradesh, lì studiò con coloro che erano considerati i migliori maestri di arte tradizionale religiosa; l’esperienza come Artist in Residence in Giappone, al Shoko Culture and Research Institute di Nagano, con l’amico e artista Yumyo Misakaya; il periodo trascorso in Germania, a Würzburg; e, infine, gli ultimi anni in America, dove, inizialmente, collaborò con il Rubin Museum di New York.

L’arte tradizionale, oggi, è principalmente delegata alle lezioni impartite nel suo studio o a specifiche commissioni di privati, mentre la forma artistica moderno-contemporanea è lo strumento d’espressione più utilizzato da Pema.

Pema era un fiume in piena, io cercavo di stare al passo trascrivendo appunti su appunti, potevo sentire una certa nota di nostalgia quando parlava della propria infanzia e dei suoi maestri e ridevo con lui quando mi narrava le sue avventure di giovane allievo.

Pema Rinzin, Wings of Joy, 2015, pigmenti naturali, inchiostro Sumi e oro su tela, 1.83 x 1.52 m.

La sua idea di arte, ri mo in tibetano, è dunque un mix perfetto di tradizione e contemporaneità, di correnti artistiche – orientali e occidentali -, tecniche e materiali, frutto dell’incontro con le diverse culture che ha approfondito durante la sua vita da artista in continuo movimento. Non ci deve stupire, quindi, di trovare elementi riconducibili all’iconografia buddhista tibetana in perfetta armonia con tecniche risalenti all’Astrattismo, all’Impressionismo, al Minimalismo all’Art Nouveau di Klimt e Mucha, ai quali si è ispirato per creare qualcosa di nuovo e unico.

Pema Rinzin, Lost Portrait 2, 2010, pigmenti naturali e oro su pannello di legno, 122 x 91.44 cm.

L’esperienza artistica, nell’opera di Pema Rinzin, lascia però spazio alla situazione attuale nel Tetto del Mondo e da voce alla comunità in esilio andando oltre la mera dimensione estetica ed estetizzante per aprirsi alle problematiche sociali del contemporaneo.

Pema Rinzin, Home away from Home, 2011, tecniche miste (collage, pigmenti naturali, inchiostro Sumi e oro) su pannello di legno, 91.44 x 122 cm.

Pema Rinzin, rinunciando all’anonimato e affermando la figura dell’artista fa un ulteriore passo in avanti rispetto ai suoi precessori. In pratica non vi sarebbe mai stato un Raffaello del Paese delle Nevi. Malgrado si sia appurata la presenza nomi di pittori e che fosse comunque possibile esprimere il proprio genio artistico tramite determinati espedienti, l’idea di un artista-artigiano che si limita a una produzione schematica e ripetitiva è ancora molto radicata. C’è la necessità di esprimere la propria individualità tramite le opere, non solo come tibetano parte di una comunità – collegandosi quindi all’idea di ‘identità condivisa’ -, ma proprio in quanto Pema: individuo con le proprie esperienze uniche.

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