Racconto di un viaggio a Trieste

Di Irene Doda

Trieste indefinita

Nora Carella, Trieste.

 

Caduta libera

Domenica 8 dicembre è un giorno di festa: l’Italia dorme ancora sotto le lenzuola e i piumoni quando il mio treno la attraversa per il largo. Da Milano da Trieste. Nonostante la nebbia opaca, la mattina si preannuncia limpida. Un sole pallidissimo sgocciola nei sobborghi di Milano. Quando arrivo a Venezia la luminosa gloria invernale si è impossessata della stazione di Mestre, dove il treno si ferma per venti minuti. Le banchine sono larghe e poco affollate. Dopotutto è  domenica e sono appena le dieci. Mentre bevo una tazza di caffè nero sento una coppia conversare in slavo. Così prosegue il mio viaggio verso il confine est.

Perché Trieste? Jan Morris la definiva “the meaning of nowhere”, il nessun luogo, l’eterna sospensione. Un luogo fluido, che scivola dalle montagne al mare, senza lasciare una traccia visibile. Capita di imbattersi in qualche chiesa (ortodossa o cattolica) o in una statua di uno scrittore famoso. Ci sono antichi moli, mercati in disuso, memoriali di guerra in ferro battuto. Perlopiù tuttavia Trieste si nutre del suo senso di indefinito, trasmettendo al viaggiatore la sensazione di essere sull’orlo, vicino alla caduta libera.

Indefinite sono le anime più profonde di questa città: politica, culturale, linguistica. È popolata da sloveni, italiani, croati, cittadini del mondo. Persino il dialetto locale suona all’orecchio come una derivazione di una lingua slava. Non è musicale. Musicali o armonici non sono nemmeno i tratti dei volti dei triestini: espressioni dure, come intagliate nel legno grezzo, zigomi alti, occhi allungati  vagamente inquietanti.

Trieste è una donna dal fascino distaccato di cui ci si innamora al primo sguardo. In soli due giorni già mi sento rapita da lei, trascinata nel vortice della sua precaria bellezza.

Siediti e guarda il mare

Alloggio in una pensione modesta, anche se collocata in posizione centrale. La mia prima ora triestina la passo seduta in un caffè, dove mangio una deliziosa brioche salata. Il paesaggio è grigio e si protende sull’acqua. Mi arrampico su per la Scalinata dei Giganti, mi siedo sulla fontana e passo una mezzora a guardare quell’essere respirante, ancora incrostato di passata grandezza, che è la città.

Il centro storico non è grande, si gira tranquillamente a piedi. Da Piazza del Ponte Rosso mi avvicino al mare e al maestoso Molo Audace- 246 metri-. Alla sua estremità, su una panchina di pietra è scritto in pennarello rosso: “Siediti; e ora che sei seduta, guarda il mare: solo lui, che non ha mai pace, ti può dare la pace”. Non so chi lo abbia scritto, né cosa mi abbia portato a sedermi proprio qui, ma sento che in questa frase è racchiuso un po’ tutto il senso del mio viaggio. Perché in fondo Trieste non ha mai avuto pace: è passata di mano in mano, ha rappresentato tanto per molti, ed è accora attraversata da tensioni e divisioni. È il luogo perfetto per fermarsi e riflettere.

L’arte e la protesta

È quasi sera; le luci del pomeriggio inoltrato trionfano su Piazza Unità d’Italia e sui suoi edifici dorati. Abbacinata dalla luce calda trascorro ancora un po’ di tempo sul molo, leggendo un romanzo. Poi mi incammino verso il Salone degli Incanti- l’ex Pescheria Centrale-, dove ho letto sarà esposta un’installazione di Jannis Kounellis.

L’opera d’arte rende omaggio alla storia marinara del luogo che la ospita. La grande basilica in riva al mare è popolata di frammenti che la ricordano come crocevia di vivace operosità e punto di incontro di culture lontane. Vecchi banchi e relitti di antiche imbarcazioni costituiscono l’ossatura centrale dell’installazione: sopra di essi pende una pioggia di pietre legate a funi. A lato, ricoperte da un telo nero, appaiono file di sedie; come se chi guarda fosse partecipe di un lutto, di una rovina ormai in fase terminale. Aleggia il senso di una maestosità che, pur restando immanente, non tornerà mai veramente indietro.

Mentre mi concedo alcuni minuti per ammirare l’opera nel salone vuoto, dalla strada provengono delle voci confuse, miste a un rullare di tamburi. Uscendo dal museo mi imbatto in un corteo che procede verso Piazza Unità d’Italia. Ci sono striscioni rossi e neri, simboli della città di Trieste e delle Nazioni Unite. Sono gli attivisti del movimento Trieste Libera, mi spiega la receptionist del Salone degli Incanti. Un gruppo di persone- cittadini, commercianti, international dockers– che chiedono a gran voce il ritorno della città allo status di porto libero, stabilito dal Trattato di Pace del 1947. “Stanno diventando man mano di più” commenta una giornalista della stampa locale. ”A settembre c’è stata una manifestazione enorme: circa ottomila persone”. Decido di seguire il corteo per un tratto di strada; è composto da giovani e anziani, famiglie e bambini. Una varietà sorprendente. Tra le persone con cui parlo, alcuni sembrano entusiasti e convinti della causa, altri esprimono dubbi sulla trasparenza del movimento (da dove arrivano i finanziamenti? Siamo sicuri che le  rivendicazioni siano legittime, dal punto di vista del diritto internazionale?).

Territorio libero! Trieste porto libero! La città trema sotto il martellare degli slogan. È davvero il “nessun luogo”, una perla scaturita dal mare, una creatura vibrante e solitaria, senza un posto nel mondo, le cui cicatrici sono ancora visibili. Anche agli occhi di un semplice turista.