Testo di Dario Landi | foto di Fulvio Landi

Treno per Orchha

Treno per Orchha

Questa è la mia foto preferita.

Quella che, quando penso ad una bella foto fra quelle in mio possesso, si materializza nella mia mente.

E’ stata scattata nel 2010 sul treno che conduce ad Orchha, nello stato indiano del Madhya Pradesh.

La foto, forse, non è un gran che. C’è un senso di profondità ben scandito dalla reiterazione dei seggiolini del treno. C’è, forse, una buona luce, con quello squarcio bianco a metà carrozza a suggerire, fuori, un ulteriore piano d’esistenza.

Ma è sgranata, fuori fuoco

Io e la fotografia, però, siamo due pianeti su orbite non intersecantesi, e non è la forma a rendere questa foto la mia preferita.

E’ il contenuto, o, meglio, la narrazione.

Perchè quest’immagine, più che una foto, è un fotogramma, il frammento di un film immaginario cristallizzato su dei sali d’argento.

Ed è un film della cui inesistenza rammaricarsi, perchè è bellissimo.

Ci sono due protagonisti, un ambiente, delle comparse, ma, inutile girarci attorno, non è questo ciò che cattura la nostra attenzione.

C’è un fucile.

Ora, supponiamo che voi stiate frequentando un corso per sceneggiatori.

Vi verrà detto che se nella vostra storia inserite un’arma prima o poi dovrete usarla.

In gergo tecnico si chiama “seme”. Si inserisce un elemento in una scena che si svilupperà nelle scene seguenti, fino a “sbocciare” nel finale.

Guardate “Il buio nella mente” di Claude Chabrol, film che personalmente odio, per un esempio magistrale di questa tecnica.

Nel nostro film inesistente il seme-fucile è il cardine di tutta la storia. E’ il gancio che cattura la nostra attenzione. Sarà stupore da occidentale, ma non mi aspetterei di vedere un fucile su un treno. Forse fra le mani di un poliziotto, ma anche in quel caso mi segnalerebbe un problema, un’increspatura nel normale svolgersi di una giornata.

Il fucile apre un mondo. E’ una porta. E vi spiegherò perchè. Ma è un perchè che si collega ai due protagonisti e, quindi, è tempo di parlare di loro.

La donna. E’ una donna di mezz’età, potrà avere cinquant’anni. E’ vestita in abiti tradizionali. Se immaginiamo che l’ipotetico film comprendente questo fotogramma sia girato per un pubblico occidentale, poco importa che per una donna indiana quelli siano in realtà vestiti d’ogni giorno.

Ma soprattutto, questa donna, dorme. E non il sonno accidentato di chi fa un sonnellino in treno. No, abbandonata riversa sul sedile, la testa sotto il braccio, dorme profondamente. Forse, ma qui sto esagerando col lavoro di fantasia, sogna.

Ed in quale ambiente dorme questa donna? Per capirlo dobbiamo tirare in ballo le comparse. Il nostro sguardo le indaga scendendo il corridoio del treno lungo la fila di sedili di destra, rallenta, quasi si ferma, un attimo, sulla  persona in piedi al fondo del vagone , e poi risale, lungo la fila di sedili di sinistra.

Che cosa vediamo? A parte una donna (forse un’ occidentale, la sua pelle è bianca) sul sedile subito dietro la nostra dormiente, sono tutti uomini.

La nostra protagonista dorme, tranquilla, in un mondo popolato di uomini. Compie un’azione passiva, dormire, in un mondo di uomini attivi, svegli. E’ già un suggerimento, di nuovo un seme, di quello che è il tema principale sotteso a questo film e che trova compimento nel protagonista maschile.

Eccoci infatti giunti all’uomo col il fucile.

Torniamo al corso di sceneggiatura che probabilmente state frequentando. Un altro degli insegnamenti cardine sarà quello sul conflitto. Una storia funziona se mette in scena dei conflitti. Più questi sono coinvolgenti più la storia gira.

Il conflitto si basa su un “mondo ordinario” d’un tratto messo in crisi.

E il mondo della nostra scena è ordinario di nome e di fatto: un mondo basato su valori chiari. L’uomo agisce, lavora, protegge. La donna riposa, cura, accudisce.

E il nostro protagonista è l’archetipo di questi valori. Il più uomo fra gli uomini.

Ma ecco che giunge il conflitto. O, meglio, il presagio del conflitto. L’uomo è in posizione antitetica rispetto alla donna e stringe un fucile sguaniato, sfoderato, pronto all’uso.

Un pericolo minaccia l’integritià del mondo ordinario.

E il fucile, ecco spiegata la sua centralità, ne è il simbolo.

Ma di quale pericolo sta parlando il nostro sceneggiatore? La risposta più ovvia è un nemico esterno, da cui l’uomo, combattendo, difenderà la donna. Magari senza neppure svegliarla.

Ma i bravi sceneggiatori rifiutano le risposte ovvie.

Vedete, per scrivere un buona sceneggiatura, vi diranno sempre al corso di scrittura, è necessario che le vostre scene contengano sottotesto, quello che in gergo viene definito “il bianco”, del testo invisibile posto nello spazio fra una battuta e l’altra che veicola, senza esplicitarli,  allusioni e significati reconditi.

Io, che sono un tipo ripetitivo e noioso, cito sempre ad esempio questa scena da “Brivido Caldo” di  Lawrence Kasdan, con William Hurt e Kathleen Turner.

[youtube height=”HEIGHT” width=”WIDTH”]https://www.youtube.com/watch?v=k1S3kaLVXME[/youtube]

 

Ora la scena del nostro film immaginario è grandiosa perchè crea infinito “bianco” su infiniti livelli di stratificazione.

Il primo livello è la tesi sottesa ai valori del mondo ordinario: un uomo, armato che protegge una donna evoca il mito, allude a racconti ancestrali.

Il guerriero che, membro rispettato di una comunità difende casa, prole, donne.

E’ una tesi rassicurante, comoda.

Subito smontata dal secondo sottotesto.

Un’ opera d’arte, infatti, è sempre creata per un pubblico. E l’autore non sta parlando a persone ignare, ma che ad, esempio, possono aver letto qualche notizia proveniente dall’India. Come questa.

O questa.

Ecco allora che la rassicurante tesi muta in un’ oscura ombra asfissiante intrisa di violenza domestica e sociale.

In un pochi, sapienti tocchi, l’ineffabile scenggiatore di questa sequenza ha compiuto un salto semantico, culturale e temporale. Dal mito alla denuncia sociale, dall’ode alla tradizione a un disperata richiesta d’uguaglianza, da un tempo arcaico alla modernità. Ma è stato abile, poichè il salto non è stato uno strappo, le due dimensioni della storia non sono i due lembi d’un tessuto squarciato, ma due piatti d’una bilancia in incerto equilibrio tra loro.

Ed ha infine aggiunto, ultimo decisivo sottotesto, un particolare, un tocco finale a completare l’opera: la candida sciarpa bianca dell’uomo. Anche qui il “bianco” predomina. Per chi la conosce un minimo, sà che l’India non può essere certo definita un paese pulito. All’ingresso della stazione di Mumbai, un grande cartello raffigurante il serafico faccione di Ghandi recita “Clearness is near to Godness” oppresso da quelli che sembrano secoli di sporcizia, polvere e guano. In questo contesto il candore della sciarpa sembra davvero alludere alla santità.

Dopo la demolizione è questa dunque una ricostruzione? Questo è veramente un guerriero puro di cuore? Il mito stesso pare aver compiuto il suo viaggio dell’eroe. Creato e poi gettato nella polvere solo per risorgere più forte.

Ma qui sta la vera grandezza del racconto, che lascia tutto in bilico, che apre al futuro rendendo l’esito e il significato della storia incerti e perciò interessanti.

La pulizia,il candore, infatti, nelle storie, sono essi stessi un seme, anzi un presagio, poichè si sporcheranno,  decadranno. Se non credete a me, chiedete a Michael Cimino e alla sequenza del matrimonio de “Il Cacciatore”.

Il bene, la purezza,  affascinano perché perennemente insidiati dalla corruzione.

Ma qui la riflessione finale scende ancora più in profondità. La purezza assoluta è essa stessa l’humus in cui germoglia il male, il candore è corruzione e i valori che quell’uomo crede di dover difendere altri non sono che schiavitù e violenza.

Non vi è nessun bianco immacolato da difendere dal nero.

Il bianco è il nero.