Testo e foto di Angela Mori.

 Sono tornata da una settimana da un viaggio in Palestina dove ho avuto l’occasione di conoscere parte della difficile e complessa realtà dei Territori Occupati.

Come faccio spesso quando sono in viaggio, anche questa volta ho inviato alcune lettere ai miei amici per raccontargli quello che ho visto e vissuto…

 

9 Febbraio 2013

BIL’IN

Brucia.

Bruciano gll occhi.

La paura di di essere colpiti dai lacrimogeni che i militari israeliani sparano a ritmo serrato pero’ e’ piu’ forte della voglia di vomitare che viene quando respiri quel gas.

Penso a loro. Agli abitanti di Bil’in che tutti i venerdi, verso mezzogiorno, vanno a manifestare davanti a quel muro che circonda la colonia israeliana che occupa illegalmente la terra di Palestina.

Da otto anni vanno davanti a quel muro a gridare la loro rabbia e il loro diritto ad essere sovrani sulla loro terra. E la voglia di vomitare per questa ingiustizia e’ ancora piu’ forte.

Anna ed io abbiamo raggiunto Bil’in con il taxi da Ramallah. Siamo arrivate presto e cosi’ ci siamo messe a chiacchierare un po’ con la gente del posto. Una signora ci ha dato ospitalita’ nel suo negozio e prima di congedarci ci ha regalato un barattolo di olive sott’olio.

Sifan, il tassista che ci ha portato ci ha raccontato la sua storia, comune alla maggior parte dei palestinesi.

Otto anni in carcere. Le torture erano all’ordine del giorno. Per tre mesi, in inverno, lo hanno tenuto tutte le notti, prima nell’acqua gelata e poi nell’acqua bollente. Eppoi, con mani legate dietro le schiena, ad annusare cose puzzolenti. Ci ha mostrato le medicine che deve prendere per tutti i problemi di salute che gli israeliani gli hanno provocato. Uscito dal carcere non riusciva a darsi pace per il fatto di non avere un lavoro e non poter garantire ai suoi figli il diritto a studiare. “Sono andato da Arafat e gli ho raccontato tutto questo. Mi ha staccato un assegno da diecimila dollari per far studiare i miei figli”. Quando lo ha nominato, le lacrime hanno solcato la fierezza del suo volto.

 Quando ci ha lasciato ci ha detto di aspettare li’ perche’ le persone, dopo la preghiera nella moschea, sarebbbero passate da quella strada per andare a manifestare.

Insieme ai palestinesi, spagnoli e israeliani dissidenti solidali con la causa palestinese, Anna ed io siamo andate a manifestare al muro sapendo benissimo che cosa ci aspettava. Questa assurda battaglia e’ durata per circa un’ora e mezzo, cioe’ fino a quando l’ultimo manifestante  se ne e’ andato.

Come Bil’in  ce ne sono tanti altri di villaggi in Palestina dove la resistenza pacifica dei suoi abitanti viene stroncata quotidianamente dalla violenza degli Israeliani.

Ogni giorno a Hebron, Betlemme, Ramallah e in tanti piccoli villaggi di questa terra occupata, molte case vengono distrutte per far posto alle colonie illegali israeliane.Decine di persone vengono arrestate quotidianamente senza aver commesso alcun reato ma solo per resistere all’occupazione israeliana. 

L’altro giorno siamo andate al campo profughi di Aida a Betlemme. Khalil, mentre sorseggiavamo il te’ alla salvia ci ha indicato una foto che lo ritraeva insieme al figlio. La location non era una qualsiasi, ma il carcere, che li ha visti insieme per un periodo, arrestati in tempi diversi. Ad un certo punto, ben 19 componenti della sua famiglia, si sono ritrovati contemporaneamente in carcere.

Mentre ascoltavo la sua storia ho sentito un cinguettio ed ho visto appesa al muro del corridoio una gabbia con degli uccellini. “Perche’, tu che hai conosciuto il carcere ingiustamente, infliggi la stessa crudelta’ anche a loro?” gli ho detto.

Mi ha sorriso. Chissa’ se un giorno li liberera’.

 

 

 11 Febbraio 2013

 At – Tuwani

 

Oltre la violenza, il disprezzo.

Nella citta’ vecchia di Hebron, i palestinesi si difendono con una rete metallica sopra le loro teste, dal sudiciumaio che gli israeliani gettano dalle finestre delle loro case nella colonia che si trova proprio a ridosso del mercato e la cui costruzione ha visto la distruzione delle case dei palestinesi e la chiusura forzata di alcuni negozi da parte dei militari israeliani che hanno requisito alcuni edifici sull’altro lato della strada per difendere i coloni insediati illegalmente in quella terra.

Oltre ai rifiuti anche di grosse dimensioni, si possono vedere anche dei mattoni che, se non fosse per quella rete, colpirebbero chiunque passi di li’.

Tempo fa hanno lanciato anche delle molotov e addirittura nella casa di un ragazzo che si affaccia sulla colonia, hanno fatto passare un serpente dal buco che gli garantiva l’unico spiraglio di luce da quel lato della casa, dato che le finestre gli sono state sbarrate dai militari israeliani.

Ma la violenza dei coloni va oltre ogni umana immaginazione.

At-Tuwani e’ un piccolo villaggio a sud di Hebron. I palestinesi che vivono li’ subiscono quotidianamente i soprusi e le violenze dell’esercito israeliano e dei coloni. I militari distruggono le loro case.Hanno distrutto anche la moschea. Loro ricostruiscono. Di nascosto, perche’ per la legge israeliana i palestinesi non hanno diritto a costruire sulla loro terra.

Teresa e Sara, insieme ad altri attivisti di “Operazione Colomba” accompagnano ogni giorno i pastori nella loro attivita’ poiche’ rischiano aggressioni da parte dei coloni che spesso manifestano nei loro confronti una violenza inaudita usando spranghe, mazze e fionde per impedirgli di far pascolare i loro greggi vicino alle colonie di Ma’on e Havat Ma’on insediate sulla loro terra illegalmente.

La loro violenza non si ferma nemmeno davanti ai bambini che dal villaggio di Tuba devono percorrere la strada che porta ad At-Tuwani dove c’e’ la scuola. L’assurdita’ vuole che questi bambini vengano scortati dagli stessi militari israeliani che poi vanno ad arrestare i loro padri e fratelli e a distruggere le loro case e i loro pozzi. Teresa e Sara vigilano con il canocchiale che davvero i militari li scortino,visto che a volte succede che non si presentano all’appuntamento quotidiano. Da quella collina dove il vento sferza i volti e le coscienze, loro filmano tutto e inviano poi agli organismi internazionali come l’UNICEF.

Nelle azioni non violente di difesa della loro terra gli abitanti di At-Tuwani hanno raggiunto una tale consapevolezza della loro forza che sono riusciti a contagiare anche altri piccoli villaggi nei dintorni. Le donne soprattutto, nelle manifestazioni, interponendosi tra i loro uomini e i militari, dimostrano un coraggio che non sempre si riscontra da altre parti.

At-Tuwani resiste. Resiste con le donne.