Testo e foto di Laura Elmas. 

Un piccolo racconto  fotografico di un Marocco esplorato in “solitaria” da una giovane viaggiatrice, Laura Elmas, che ci descrive con una curiosità spontanea ed attenta la sua esperienza  fra le concerie di pelle di cammello di Marrakech e le cascate dell’Ouzoud. 

Dietro i vetri del minibus scorreva il Marocco, con la sua storia, le sue tradizioni, le sue voci…

Questa volta l’ho fatto. Ho preso e sono partita da sola. Così, per curiosità.  Ero rimasta folgorata da un foto racconto sulla vita marocchina nei souk, dove ancora gli artigiani sono raggruppati secondo i mestieri. Avevo iniziato a leggere di tutto su Marrakech: avevo comprato diverse guide, visto decine di documentari, analizzato con l’occhio attento di chi non vuole perdersi nulla le mappe e le cartine della zona, tanto che appena sono arrivata nella “città rossa” mi sembrava già di “possederla”.


Dopo aver constatato la meraviglia delle anguste botteghe della medina e le incessanti attività di piazza Jemaa El Fna ho pensato di dirigermi verso est. Avevo letto che da qualche parte c’era un quartiere chiamato Debbaghine dove lavoravano la pelliccia del cammello, ma non avevo la minima idea di dove fosse. Così, affidandomi un po’ all’inglese, un po’ allo spagnolo, ma soprattutto agli infallibili gesti delle mani, ho fermato il primo ragazzino in motorino, di nome Youssef.  A Marrakech, in effetti, tutti si chiamano o Youssef o Ali o Mohammed. Gli ho mostrato le foto del conceria di pelle di cammello e del quartiere di Debbaghine, e sono salita sul suo motorino senza troppe esitazioni e senza pensare che, in fondo in fondo, potesse essere anche un po’ da incoscienti. Appena scesa dal motorino e salutato il mio gentile amico, mi sono diretta verso l’ingresso della conceria.

Qui ho conosciuto Ali, l’amministratore della conceria, che si è offerto di accompagnarmi per tutto il percorso. Esperienza unica anche se forte. Questo suq, lontano dalle folle di turisti, è infatti una sorta di girone infernale in terra. Qui è possibile vedere uomini, ma soprattutto bambini, preparare la pelliccia del cammello, immersi in vasche di acqua putrida, tra fango, odori di ammoniaca e guano di piccione (serve per trattare il cuoio). Fortunatamente Ali, all’entrata, mi aveva dato un ramoscello di menta fresca. E anche se all’inizio non avevo ben capito lo scopo di questo omaggio, poi mi è parso chiaro che, per resistere, fosse d’obbligo muoversi tenendolo sotto il naso.

Altra meta sorprendente del mio viaggio sono state le cascate dell’Ouzoud.
Inizialmente ero demoralizzatissima, perché avevo visto che i prezzi per raggiungerle in jeep erano molto elevati. Queste cascate si trovano a 160 km da Marrakech e, coi loro 110 metri di altezza, sono le più alte del Marocco. Perdermele sarebbe stato un vero peccato, ma la buona sorte ha voluto che un giorno incontrassi nella medina una bottega di berberi che organizzavano viaggi alle cascate in minibus. Proprio quello che faceva per me. Con 250 dirham, 25 euro circa, ho prenotato il mio posto per il giorno seguente. L’escursione ha avuto inizio la mattina di un giorno indimenticabile. Il muezzin aveva già chiamato la preghiera, il sole era da poco sorto su Marrakech e Mohammed, il nostro autista, ci aspettava puntualissimo fuori dall’Hotel. Dietro i vetri del minibus scorreva il Marocco, con la sua storia, le sue tradizioni, le sue voci. I finestrini lasciavano entrare l’aria fresca della mattina, il traffico era meno intenso. Mano a mano che si lasciava la città verso nord-est, il paesaggio cambiava, i grandi edifici rosa lasciavano posto alle piccole case dei villaggi, le auto si contavano sulle dita , i carretti attraversavano la strada.

Al nostro arrivo Achille ci ha dato il benvenuto, ci ha guidato attraverso gli ulivi accompagnandoci lungo la gola fin sotto la cascata, nel canyon di Oued el Abid.
Ci siamo incamminati lungo il sentiero che taglia un uliveto prima rosso, poi blu, giallo, intorno a noi decine, centinaia di ulivi sporcati di pittura dai proprietari terrieri. Mano a mano che si procedeva il percorso diventava sembra più ripido e scosceso, per qualche decina di metri e poi, d’improvviso, un’apertura ci ha lasciati a bocca aperta. Nel silenzio degli uliveti, si è sentito per la prima volta la voce della cascata.
Ci siamo avvicinati con cautela al dirupo e lei era lì: la più alta cascata del Marocco.
La mattina è trascorsa senza accorgersene, il silenzio interrotto solo dallo scrosciare dell’acqua e dalla voce profonda di Achille che ci raccontava delle storie del villaggio, della gente che dall’Europa era venuta a vivere qui, e di quella che invece c’era sempre stata.

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