Testo di Dario Landi | Fotografia di Serena Landi

MARRAKECH

Poco distante da me, al centro di un folto cerchio persone c’è un vecchio. Ha la pelle olivastra, un berretto di lana calcato in testa, la barba bianca e compatta. Parla, con cadenza calma ma decisa, gesticolando come a spremere l’aria attorno a se. Sta raccontando una storia. E’ una storia appassionante e tutti, me compreso, ascoltano assorti.

Vorrei davvero potervi dire di cosa parla questa storia, ma, sfortunatamente, il vecchio parla in arabo, e io l’arabo non lo capisco.

Nonostante ciò, è mezz’ora che lo ascolto rapito. Certo, ogni tanto rido fuori tempo, e tutti mi guardano un po’ straniti, ma resta il fatto che questa è solo una delle tante piccole magie che si compiono ogni sera nella Jemaa El-Fna, la piazza centrale di Marrakech.

Marrakech è una città bella, non bellissima. Se dovessimo fare un duello, di sicuro Fes, ma anche Essaouira, giusto per rimanere in Marocco, la supererebbero di diverse spanne.

Eppure al centro di Marrakech c’è questo non diamante, bensì accozzaglia di vetri colorati caduti da un caledoscopio.

Il perimetro esterno è una cortina di venditori di ammennicoli vari.Tazze, minuscole tajine colorate, animali in gabbia, olio d’argan pessimo, olio d’argan decente, ma soprattuto gli onnipresenti giochini di plastica che vengono scagliati a illuminare la notte.

Sono la più piccola delle magie, il capocirco che soffia fuoco per introdurre lo show.

Al centro ci sono i banchi del cibo. Le nubi di vapore che si alzano dai calderoni e dalle griglie, ricordano le atmosfere di una fiaba giapponese.

Potrebbe essere l’inizio de “La Città Incantata” di Myazaky quando i genitori della piccola Chihiro si fermano a mangiare e si trasformano in porci. Oppure “Un ristorante pieno di richieste”,  il racconto di Kenji Myiazawa, contenuto in “Notte sul treno della Via Lattea ed altri racconti” Si trova di tutto, dalle lumache stufate, ottime qui come a Fes, alla verdura fritta, a panini farciti con patate lesse e spezie non identificabili dal mio palato occidentale.

Appena entro fra i banchi del cibo, un torma di uomini mi assale. Questi procacciatori in camice bianco hanno un che di granguignolesco. Le loro facce dalle gote pendule mi ondeggiano davanti emettendo una cacofonia di lingue incomprensibili.

Per mia fortuna so già di quale peccato dannarmi. Ho individuato il banco con le teste di capra. E’ macabro. Una reiterazione di teste mozzate, coloro bronzo, volte verso l’alto, lingue a penzoloni.

¼ di testa 1,5 euro, ½ 3 euro, intera 5. Adoro questo tipo di cibo.

Mi siedo e ordino ¼.

La testa è ottima, ma la vera magia mi aspetta un paio di banchi più in là, servita su un piatto di metallo. E’ fegato d’angello grigliato, ridotto in poltiglia, e mescolato con verdure varie. La consistenza è untuosa al punto giusto e il sapore sanguigno. Da dietro la griglia, fra volute fumose di carne, il grasso cuoco mi guarda e ride brandendo una spatola.

D’un tratto, il tono rauco d’una voce italiana mi spinge a voltarmi. Poco distante un signore romano grida, al cameriere che gli sta chiedendo se la cena è stata di suo gradimento, che “nun se po’ magnà senza vino”. Il cameriere lo guarda, sorridendo bonario. La scena, per quanto triviale, m’illumina, poichè il cameriere muto con la voce, sta parlando con lo sguardo e dice una cosa illuminante “mangiate con quelli che per voi son pochi spicci, credetevi al centro di un’esperienza autentica, del vero Marocco, tanto poi qui il gioco lo guidiamo noi”.

Per un attimo capisco che è tutto un inganno. Come guardare dietro le quinte del circo e vedere un clown struccato che fuma una sigaretta.

I suk intricati percorsi da muli stracarichi, le donne velate, gli uomini immersi nei liquami delle concerie, e infine questa piazza, mi appaiono come fumo gettato negli occhi per non far vedere che intanto il Marocco viaggia al ritmo dei suoi treni e autotreni che si spostano su nuovissime autostrade perfette, tra stazioni efficienti e terminal di areoporti immensi, scintillanti.

La realtà, è più complessa, ma davvero da uno di quei posti (l’autostrada Casablanca -Rabat, l’aeroporto di Fes, la stazione di Marrakech) è l’Italia a sembrare terzo mondo.

Sarà che questo pensiero mi spaventa, ma mi rituffo nella piazza, cercando altre magie da cui farmi distrarre.

C’è un gioco fatto con canne da pesca impossibile da vincere, e dove comunque si vincerebbero bottiglioni di bibite gasate. Ci sono le ballerine del ventre che sono evidentemente uomini, capannelli di suonatori berberi, o che come berberi si vestono.

C’ è, al centro di un altro capannello, un giovane dinoccolato, che esegue  giochi d’lussione. Si fa passare una corda attorno al collo, e invita due astanti a tirarne forte i due capi. A rigor di logica dovrebbe finire strozzato, e invece in un attimo è libero dalla stretta della corda. Ovviamente aveva solo fatto il nodo giusto, e parlato, parlato, parlato, in maniera che non ce ne accorgessimo.

Bevo un liquido speziatissimo e bollente a delle bancarelle sul lato nord della piazza. Una foto del re mi rassicura dall’alto. Anche quando il venditore versa inspiegabilmente nel mio bicchiere un cucchiaino di canfora.

Smaltite le lacrime causatemi da questo scherzo mi volto, e osservo la piazza. Tutto è falso, eppure autentico. La vera magia nella Jemaa El Fna sta proprio in questa dicotomia. E’ un posto turistico, di ricche famiglie occidentali e  turistelli zaino in spalla alla ricerca del “vero Marocco”, ma al contempo un posto vissuto giorno giorno dai Marocchini. L’equilibrio fra truffa e cortesia, verità e menzogna è gestito con sapienza, e non detto che la menzogna sia rivolta ai soli occidentali. Lo spettacolo è aperto a tutti. E alla fine proprio questo mi rincuora: anche i Marocchini sembrano voler cadere nell’inganno, dimenticando per una notte il futuro di grandi infrastrutture, reti wireless e satelliti verso cui il loro paese cammina spedito, abbandonando via via sull’asfalto nuovo la vecchia pelle.

Torno al circolo di persone attorno al vecchio. La storia non è ancora finita e chissà se mai lo farà.

Mi rilasso e mi ci perdo ancora per qualche minuto, finchè il sonno non mi guida a casa.

L’ultima magia della Jemaa El-Fna è la sua sparizione. Al mattino, tornando in piazza, la trovo vuota, in modo quasi desolante. I banchi del cibo, quelli delle spremute, i venditori di lumache, gli artisti ambulanti. Tutto sparito.

Resta qualche cartaccia, il camion della pulizia strade. Un vecchio incantatore di serpenti suona ad un cobra che, come un turista stanco, non ha alcuna voglia di lasciarsi abbindolare.

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Dario Landi nasce nel 1981 a Borgo San Lorenzo, Firenze, dove risiede tutt’ora. Fa un lavoro troppo brutto per essere dichiarato, ma per fortuna si dedica alla scrittura e grazie a quella ogni tanto riesce a scappare. Aveva paura di viaggiare ma se l’è fatta passare, e negli ultimi tre anni ha visitato India, Cuba e Marocco.

Ora sta pensando a dove andare la prossima volta.