Testo e foto di Silvia Landi

Sono sei mesi che abito in Tanzania, quando posso prendo le ferie, salgo su un autobus per scoprire nuovi paesaggi, cercando nuovi incontri e riflessioni. É un paese grande, la vegetazione varia rapidamente e molto spesso, agli occhi di chi, seduto per molte ore, viaggia su un autobus che sfreccia (anche pericolosamente) sulle strade strette e non sempre ben asfaltate della Tanzania.
Il paesaggio si srotola continuamente senza interruzioni, a perdita d’occhio, come se non esistesse un inizio ed una fine. Lo sguardo resta così libero di perdersi nell’emozione di un’altissima montagna che si innalza verso il cielo dopo una lunga distesa d’oro pianeggiante, colorata a tratti dai variopinti abiti della tribú dei masai che pascolano i propri greggi.
Il colori bruciati delle zone più aride e povere, vengono presto sostituiti dal verde brillante e nuovo della stagione delle piogge, che spesso inonda ma non penetra in una terra così poco solita all’acqua.
L’autobus è il mezzo più economico per spostarsi in un questo paese, è il più comune ed il meno turistico. Il bianco sull’autobus è una rarità, e come tale attira gli sguardi di tutti, dei più grandi e in particolare dei più piccini. Gli sguardi, raramente sono invadenti, in generale sono curiosi, spontanei, sono chiaramente attirati dalla diversità e spesso inevitabili.
Il bianco, muzungu, letteralmente significa colui che erra, in pratica, in questo paese, tra i più turistici in Africa, bianco è sinonimo di denaro. Chiaramente è un fenomeno banale, scontato, ma io, finché non mi ci sono trovata, pur avendolo previsto, non lo avevo seriamente valutato.
É spiazzante, quanto riesca ad essere irritante, sentirsi appiccicare perennemente l’appellativo di muzungu, dopo 6 mesi ospite di questo paese, mentre inizio ad entrare nel meccanismo di una lingua così ingarbugliata che è lo swahili, riuscendo perciò a recepire buona parte delle cose che vengono dette e mi vengono rivolte. La sensazione che ho addosso perenne è quella di camminare con una sirena accesa in testa o meglio un faro lampeggiante sotto la pelle. Ed è una lotta quotidiana, che inizia dal mattino quando mi sveglio, fino alla sera quando vado a letto, quella di cercare di trasmettere il messaggio che non sono una turista, che non è giusto che debba pagare una cosa il doppio rispetto al suo prezzo regolare, e che il colore della mia pelle non dovrebbe avere voce in capitolo. Rabbrividisco quando i bambini mi fermano e muti gesticolano strusciando il pollice sull’indice. Deve essere un gesto universale quello del denaro. Rabbrividisco e penso che qualcuno un giorno, non troppo tempo fa, deve averglieli dati dei soldi, e la pelle di quel qualcuno doveva essere bianca. Rabbrividisco e penso che i bambini neri, a noi bianchi ci piace aiutarli quando sono a “casa loro”, li piangiamo quando muoiono di fame, di morbillo, di aids e quando muoiono affogati, ma quando arrivano “a casa nostra” non ci piace più tanto aiutarli.

Mi fermo un attimo e penso che alla fine è vero che sono mzungu e che sono bianca, e questi sono dati di fatto.
Dopo tutto i bianchi in Tanzania sono quasi tutti turisti, quindi sicuramente molto più ricchi della maggioranza della popolazione tanzana; solo per arrivarci da queste parti, nella migliore delle ipotesi (quindi la piu economica), hanno (abbiamo) speso la cifra che riceve mensilmente come stipendio il dottore dell’ospedale dove lavoro. Intendiamoci non è uno specialista, ma si è pagato gli studi e prende comunque 600.000 scellini tanzaniani al mese (poco meno di 300 euro), e credetemi, il suo è un ottimo stipendio.
Il resto dei bianchi? Preti, suore, volontari, cooperanti, gente che si è arricchita col turismo. Un bel teatrino direi, buffo e variegato, un tripudio di ideologie, religioni, credenze, denaro e valori, conditi con un’abbondante dose di contraddizioni, di cui l’essere umano non sa proprio fare a meno.
Io in questo minestrone risiedo precisamente nel mezzo, percepisco le contraddizioni ed il secolare senso di colpa di un mondo bianco che ha schiavizzato, sottomesso, subordinato, sfruttato, violato il mondo altro (e non ha ancora smesso di farlo), perché il colore della propria pelle é simbolo di superiorità e purezza.
Io sono bianca, loro sono neri, la differenza c’è adesso come c’è sempre stata, il punto sta, come di consuetudine, nel distinguere ció che cambia tra il riconoscere la differenza e l’utilizzare la differenza come motivo di discriminazione.
In tutto ciò, nella mia vita avevo già provato la sensazione di diversità e talvolta discriminazione, perché donna, perché femminista, ma mai mi ero sentita diversa per il colore della mia pelle.

 

silvialandiSilvia Landi, 23 anni, ostetrica, è in Tanzania, nella regione di Iringa, nel villaggio rurale di Nyololo dove è impegnata con il Servizi Civile Internazionale per l’ong italiana COPE attiva nel paese dal 2004.