testo di Sandro Abruzzese e foto di Andrea Semplici

opera dell'artista, foto Andrea Semplici

La pietà di Pasolini, opera dell’artista Ernest Pignon in una piazza di Matera, foto Andrea Semplici

Era un giorno infrasettimanale di inizio luglio, quando in macchina, partendo da Fiumicino, tentai di raggiungere l’idroscalo di Ostia. La fila d’auto partiva dalla statale, dieci chilometri di coda, questo il risultato dell’alito di Roma nelle ore di punta. Avevo con me la consueta sacca, il taccuino, la fotocamera, e lo stereo, in maniera tanto casuale quanto appropriata, suonava “Quarant’anni” dei Modena City Ramblers. Fu con la delusione di un bambino che rinunciai alla visita di quel luogo. La mattina avevo fatto il bagno verso la foce del Tevere, su una spiaggia simile a una discarica che ricordava Uccellacci e uccellini, in cui galleggiavano, a pelo d’acqua, preservativi e pannolini.

opera dell'artista, foto Andrea Semplici

“Il mio pessimismo mi spinge a vedere un futuro nero, intollerabile a uno sguardo umanistico, dominato da un neo-imperialismo dalle forme in realtà imprevedibili”, scriveva nel 1964, simile a Tiresia. Non bastò la sua forza sovversiva e visionaria, né quel modo scandaloso di stare al mondo, il suo dolore non ha evitato il futuro. E quelle ossa rotte cercate, quel martirio spalancato su di noi, si mescola banalmente, nella mia testa, a quello di un Cristo, perché come Gesù, Pasolini ha fino all’ultimo cercato gli altri. Infatti amava il Vangelo. Ne amava “il rigore assoluto” e l’assenza di compromesso. Ne amava la coerenza, la libertà e, in ultimo, l’amore: “(…) un amore non sentimentale (né paternalistico né fraternalistico)”, sosteneva.
E amava il marxismo senza confonderlo col comunismo reale, ne amava la capacità di smascherare l’autoritarismo e l’ipocrisia borghese, di svelare i trucchi del sistema di potere capitalista a cui strenuamente opponeva una lucida sete di capire. E ciò che capiva e ripeteva è che una società è libera quando i suoi cittadini imparano ad eleborare il pensiero. Per questo cercò di aprire gli occhi ai giovani sulla società quale “penitenziario del consumismo”.

opera dedicata a Pasolini, foto Andrea Semplici

A distanza di decenni, a quarant’anni dalla sua morte, mi chiedo cosa abbiano molti intellettuali odierni oppure a lui coevi da renderli dei puntini al suo cospetto? La risposta è che non hanno la sua siderale distanza dai luoghi del potere. Non vivono, come lui, la vita vera, ma un mero gioco di riflessi. Lui il potere, che in Italia era quello democristiano, lo additava e accusava, lo lacerava nel costato come un San Sebastiano. Altri, nel tentativo di emularlo, quando va bene finiscono per coglierne brandelli di estetica, difficilmente si accostano all’etica. Non bastano le parole, i film, le poesie per avvicinarsi all’intellettuale bolognese. Occorre la coerenza tra vita e parole. E Pasolini il potere lo inchiodava impietosamente alla sua croce: “(…) manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la Cia, uso illecito di enti come il Sid, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia, Bologna, distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia (…)”.

Non evitò la morte violenta, non avrebbe potuto essere prudente, forse perché in ogni anfratto della sua livida esistenza, ha inseguito la libertà e il nostro amore.
Allora Pasolini, nell’andare incontro alla morte, sembra Julien, il protagonista di Porcile, che si lascia divorare dagli stessi porci che ama. Oppure, veste i panni del nostro moderno Cirano, quando per buona parte della vita indossa lo stesso suo ostinato coraggio e, con la medesima ostentatoria disperazione, trova la sua e un po’ anche la nostra fine. Oggi è il 2 novembre. Il suo ultimo giorno, nel 1975, fu questo. Mi chiedo chi siano i porci che lo hanno divorato, anche se in realtà lo so. Io so. Ma non ho le prove.