Testo e foto di Luisa Fazzini

Si chiude il primo anno di “Geografica”. Un anno immobile durante il quale la rubrica ha incontrato Gente che Va aprendo comunque nuove vie alle idee. Un ringraziamento a tutte e tutti – a chi scrive, a chi insegna, a chi ricerca, chi ci legge, a chi ci guarda, a chi ci condivide, a chi ci commenta – per aver contribuito a tracciare l’inizio di questo cammino.

Per raccontare la città bisogna circoscrivere l’assenza. Di cosa? “Prof., ma in città c’è tutto!” “No. In città ci sono moltissimi oggetti e costruzioni che abbiamo racchiuso  in un sistema organizzato (non sempre) di sopravvivenza. La città è un’affascinante creatura artificiale. Ma non è tutto quello che ci serve.”

Una scuola, dalle nostre parti, è sempre in un centro urbano, grande o piccolo. Quindi prendete (fatelo insieme agli studenti, come un gioco condiviso) un foglio bianco. Dividetelo in due. Prima colonna: la città. Scrivete il nome di una decina di oggetti e/o di costruzioni che vedete attorno a voi e a ognuno collegate una sensazione o un sentimento. Ci riuscite?

Seconda colonna: senza titolo (al momento). Leggete questi pensieri e cercate di fare lo stesso esercizio.

“Se ci sono pareti ed è chiuso sopra la testa, i suoi pensieri non riescono a scorrere (…); ma quando è in alta montagna, allora sì che il suo cervello è davvero limpido, e se la riunione fosse in qualche modo lassù, in alta montagna, forse il lappone saprebbe sbrigare molto bene i suoi affari (…). La percezione del vento non è semplicemente un dato sensoriale, ma un’esperienza cognitiva complessa, mediante la quale i pastori costruiscono forme di comprensione del mondo”. (Svezia) Da Gianluca Ligi “Il vento e i guardiani delle renne”

“Siavash è nato nomade. Oggi è un medico in pensione. (…) Siavash è la mia guida attraverso il popolo dei Qashqai, leggendaria popolazione di pastori transumanti dalle lontane origini turche (…). C’è una donna davanti alla tenda: è in ginocchio vicino a un fuoco. Anche lei sembra osservare il cielo. Immagino ci sia abituata, ma appare ugualmente stupita. E’ come se entrambi ci trovassimo sospesi fra sogno e realtà sperduti tra le montagne desertiche. (…) Saviash è figlio di questa comunità. Vuole mostrarmi la sua vecchia scuola. Ormai è un piccolissimo rudere. Anche se ormai vive in città, non dimenticherà mai le sue origini. Non vi è più il tempo. Né il passato, né il futuro. L’unica clessidra apparente è l’alternarsi di luce e di buio, del giorno e della notte”. (Iran) Da Antonio Mercurio “Il tempo dei nomadi”

“E la luna segna il passare dei mesi. Mi sono velocemente innamorata delle notti di luna piena. Non solo per l’alluvione di luce che trasforma l’oscurità in un gioco di ombre e fa brillare la sabbia; ma per l’importanza, l’eccitazione, e le aspettative che una notte di luna piena porta”. (Kenya) Da Greta Semplici “Polvere e spine: la via dei canti turkana”

Ci riuscite? Che cosa c’è di diverso? Quando avete individuato l’elemento differente tra la prima e la seconda colonna potete scegliere il titolo che ancora manca. Cambierà classe per classe. Il mio titolo personale è “Il legame”.

“Trovo estremamente discutibile l’uso della tecnologia come una soluzione sana per aumentare le nostre capacità di adattarci. (…) Il processo cognitivo associato all’uso di Google Maps è ben diverso da quello che si innesca quando si osserva, con i propri mezzi percettivi (occhi e non solo), ciò che ci cirrconda”. Da Linda Pappagallo e Alberto Salza “Lo sguardo dei pastori”

“Il loro andare e venire è un cerchio, una geometria elementare: segue il vento e le piogge, annusa l’odore dell’erba che spunta un po’ più in là”. (Dancalia etiopica) Da Andrea Semplici “La forza del cammino”

Il numero 28 di Erodoto 108 “Gente che va” è il modo migliore per spiegare la città come costruzione umana. Come punto di rottura, con sapore di onnipotenza, rispetto al nostro luogo di origine: la natura. Quella natura con la quale nasciamo connessi, ma non lo sappiamo se viviamo in città.

Leggiamo questo pezzo cerniera:

“Le donne procedono in cammino, la scia lunga del loro velo nero, e nulla sembra turbarle. Hanno lo sguardo fermo sulla strada e il traffico, attente a cogliere ogni minimo movimento anomalo dei dromedari. Stanno avanzando sulla corsia di emergenza di un’autostrada a sei corsie. Il rumore delle auto è un fragore. Dieci donne in carovana, ciascuna stringe la corda del proprio dromedario stracarico di masserizie. Sopra ci sono agnelli e bambini vestiti come maharaja. Questo è solo il primo di una lunga serie di incontri tra medioevo e modernità, è la prima carovana che vedo attraversare binari ferroviari. Ne vedrò altre avviarsi verso foreste di pale eoliche, mi accamperò con loro vicino alle mura di recinzione di fabbriche di fertilizzanti”. (India Occidentale) Da Elena Dak “Carovane in autostrada”

I due mondi cozzano. Nella progettazione dell’artificiale con cui organizziamo il naturale deve esserci una direzione di senso: quella del legame, del dialogo spirituale con il nostro essere animali. Ecco il senso ultimo delle green city, delle smart city, dell’equilibrio tra gli elementi artificiali e naturali per il benessere umano, affinchè si viva in spazi funzionali senza dimenticare la propria anima.

Con gli occhi al cielo e il naso nel vento.