Testo e foto di Nadia Berti.

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Gouran, 1 agosto 2013

Si alzano al mattino molto presto, ancor prima che il sole dia il buongiorno a questo mondo. Non escono quasi mai da soli, spesso si riuniscono in piccoli gruppetti, raramente sono in coppia. Camminano sulle loro ciabatte di gomma che hanno già percorso chissà quanti chilometri: la suola è sottile e calca alla perfezione la forma dei piedi, così agili nel correre tra pezzi di ferro appuntiti, vetri di bottiglie rotte e sassi. Guidano carretti trainati da asini stanchi, restano seduti vicino ad un foyer dove si preparano frittelle dolci o speziate al peperoncino, osservano chi passa in strada cercando in ognuno il prossimo cliente. Si riposano talvolta all’ombra di una timida pianta che prova a crescere nelle aiuole abbandonate delle banchine spartitraffico. Spuntano a sorpresa ai semafori per vendere ricariche telefoniche, sacchetti di uova sode e piccoli mandarini profumati.

Uno sguardo smarrito dietro un banchetto di manghi dal colore giallo intenso incrocia il mio dall’altro lato della strada, ma è come se mi attraversasse. I pensieri, almeno quelli, riescono a sorvolare le moto, le auto e le bici che interrompono quell’attimo: mi ricorda il soggetto di un quadro di Manet, una ragazza dietro al bancone con gli occhi inespressivi e la mente altrove, mentre gli avventori del locale si godono le frivolezze della vita.

Quando si fa buio, i piccoli uomini non sprofondano in comode poltrone per guardare la tv. Il commercio continua e se sei un buon imprenditore non puoi non sapere che proprio quando spunta la luna si moltiplicano le occasioni per vendere qualcosa o offrire un servizio. La città respira a pieni polmoni l’aria fresca della sera e accende di buvette, maquis e restau ogni quartiere, anche quelli dove ancora non è arrivata la corrente.

Cerchiamo posto in un localino lungo la strada più trafficata di Ouaga, quando un commerciante di otto anni ci indica un tavolo vuoto e ci porta le sedie. Mentre attendiamo l’arrivo delle nostre bibite fresche, rispunta alle nostre spalle per raccontarci quanto sia buono il suo pesce e convincerci della rapidità nel grigliarlo. I nostri amici lo incoraggiano: ordiniamo due portate. La sorpresa in un sorriso, un regalo inatteso. Anche stasera la soddisfazione ha il suono metallico delle monete nei pantaloni.

Che sia in città o in villaggio, poco cambia: un esercito di uomini e donne in miniatura non risparmia le forze nemmeno quando termina l’anno scolastico. Sempre che abbiano avuto la fortuna di frequentare. Anzi, proprio quando in molti Paesi i bambini preparano il costumino per andare in spiaggia con mamma e papà, i piccoli lavoratori burkinabé si riversano lungo le strade, nei botteghini di quartiere o nei campi ad incoraggiare e sostenere con le loro braccia le attività di famiglia, commerciali o agricole che siano. Sembrano non sentire la fatica: donne alte un metro e venti sollevano sulla testa secchi d’acqua colmi fino all’orlo e legano esperte con uno straccio i fratellini di pochi mesi sulla schiena. Piccoli pastori portano le vacche a pascolare, non senza il rischio di ricevere insulti per l’indisciplina di qualche bestia golosa che all’erba di nessuno ha preferito assaggiare le tenere foglie di mais spuntate con le prime piogge. Uomini e donne che appena possono tirano calci ad un pallone consumato, che si rinfrescano in pozze d’acqua piovana o usano la fionda per colpire qualsiasi cosa venga considerata un bersaglio. Si divertono a costruire macchinine dai materiali di scarto trovati per terra o a rincorrere il rotolare incerto di un vecchio pneumatico. Uomini e donne che ancora non guidano un trattore, non perché sia considerato pericoloso, ma solo perché le loro gambe sono troppo corte. Li vediamo sfrecciare in motorino su strade delle quali conoscono ogni buca, ogni ostacolo. Si sollevano su biciclette che sembrano non avere un conducente: stanno in piedi con aria sicura sui pedali, perché alla sella ci arriveranno tra qualche anno. Nei campi sfidano il sole chinando la testa sulla terra nel periodo della semina e fanno da guida ai carri di buoi che docilmente solcano il terreno per risvegliarlo, per renderlo fertile.

Chissà quali sogni hanno in testa, quale futuro si immaginano. Chissà se pensano già alla possibilità di continuare gli studi o se sono consapevoli di dover chinare la testa agli anni che passano. Qualche minuscola donna conosce già il suo destino: moglie, madre, serva della famiglia, pilastro della società. Altre forse immaginano di fuggire lontano, con un cavaliere dalla pelle più chiara della loro. Ragazzini e ragazzine sognano la città, mentre chi già ci vive sa quanto è dura sostenere i costi della frenetica vita nel grande formicaio, che non risparmia nessuno e vomita disuguaglianze sempre più imbarazzanti col passare del tempo. Si respira un vento di pioggia, cambia il tempo. Si sono arrampicati su un albero di karité, per sollevare i loro piedi da una terra che chiede loro responsabilità più alte della loro statura. Forse sono saliti lassù per nascondersi o per vedere più lontano, dove gli occhi di chi è già cresciuto non arrivano più.

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Nadia Berti

 

Viaggiatrice per scelta, osservatrice per passione: amo fare del mio lavoro di cooperante un’occasione per raccontare mondi altri, senza pretendere di volerli comprendere. Osservare e scrivere per me sono sempre state due azioni correlate e inscindibili. In questi anni ho riempito interi quaderni di impressioni e racconti, trovando nella scrittura un’ottima compagna di viaggio.