Testo e foto di Caterina Borgato

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Qabahan, isola di Socotra, Yemen, Penisola Arabica: non ci sono strade che portano a Qabahan,  per arrivarci è necessario chiedere un passaggio ad una barca o superare a piedi una falesia massacrata cercando, vicino a dove finisce la pista che viene da Nord, lo stretto sentiero che l’attraversa. Questa è l’unica strada percorribile, quella che si è creata al passaggio ripetuto ogni estate dai piedi di uomini, donne e bambini delle cinque famiglie che abitano a Qabahan e che durante i forti venti del monsone di Sud-Ovest, per non rimanere in totale isolamento, usano come collegamento con il resto del “loro” mondo. Il villaggio è quasi invisibile, case fatte della stessa roccia della falesia, addossate ad essa, quasi ne fossero geometrica protuberanza. Il giorno e la notte, il buio e la luce, l’inizio e la fine dei monsoni scandiscono il tempo e l’organizzazione della vita. Vicino al villaggio c’è la più grande foresta di mangrovie della Penisola Arabica, di fronte ad un mare che ha il colore dei cieli limpidi di montagna. Quando finisce il gas delle vecchie e ammaccate bombole, che rimangono lì, vuote, buttate in un angolo forse con rabbia, come se il fatto di essersi esaurite avesse tradito le speranze di fare un po’ meno fatica ogni giorno, le donne di Qabahan vengono qui  a prendere solo legna secca, come vuole la legge non scritta dell’isola, per il fuoco della loro comune cucina, uno spazio piccolo e fumoso con un unico fornello zoppicante e mezzo arrugginito. Si incamminano dopo che la prima luce del sole, già accecante e calda di buonora, ha inondato la loro semplice casa; figure snelle e colorate, camminano con l’eleganza delle donne non europee, delle donne abituate ad indossare abiti che coprono anche i piedi e che, pur non fasciandole, lasciano intravvedere la magrezza dei loro corpi. Camminano lente, in apparenza svogliate, con abiti di tessuti sintetici rinsecchiti dal sale e dalla polvere e che ad ogni movimento strofinano sulla pelle delle loro gambe magre spalmata di cristalli microscopici; lasciano impronte sottili sulla sabbia umida che ad ogni  passo cambia colore, dal bianco al grigio chiarissimo ed emette il suono dei milioni di granelli che contemporaneamente si compattano sotto il peso del loro corpo; avanzano silenziose, verso questo enorme spazio verde e umido tra mare e terra, unico luogo raggiungibile in poche ore. I loro piedi confondono sulla loro possibile età biologica: nessuno a Qabahan ha idea esattamente di quando sia nato; hanno piante tagliate come si taglia, per il caldo e freddo, per l’uso ed il passare del tempo, una suola di gomma di una scarpa da montagna. Non sentono alcun fastidio, insensibili sulla sabbia rovente, sulle roccia carsica appuntita, tra il groviglio dei rami della bassa e fitta foresta. Non hanno mai indossato ciabatte, né tanto meno indosseranno scarpe, abilissime a camminare ovunque senza ferirsi.

In ogni viaggio a Socotra ho un appuntamento con queste donne, con le bellissime e coraggiose donne di Qabahan; attraversando a piedi la falesia o navigando sotto costa con una barca in acque dal colore irreale, accompagnata spesso da branchi di delfini acrobati, arrivare a Qabahan per raggiungerle è, ogni volta, come ritornare da amiche che posso vedere solo raramente, ma che, sempre, mi accolgono con abbracci e calore. Alcune di loro le ho lasciate bambine, capelli quasi biondi, schiariti dal sole e dal sale, pelle liscia e morbida; le ho ritrovate adolescenti, capelli coperti da veli sgargianti e, in braccio, fratellini più piccoli che ancora non sanno camminare, oppure donne, dallo sguardo fiero e penetrante, con folte chiome ricciolute e nere appena coperte da foulard, il corpo magro, i seni avvizziti a lungo succhiati che si intravvedono sotto le vesti colorate e lucenti.

Lo sanno che prima o poi ritorno e ogni volta è lo stesso bellissimo rituale: all’ombra di una delle  case o dentro l’unica stanza nella quale vive un’intera famiglia, mi fanno vedere i bambini appena nati, quelli che ho visto ammalati e che ce l’hanno fatta, quelle tra loro che dovranno partorire. Mettono a bollire l’acqua per il tea sempre nella stessa teiera annerita,quasi bruciata, con il manico di filo di ferro attorciliato, che da anni sopporta il calore del fuoco a legna; a Qabahan il tea è sempre leggero e non speziato. Impastano farina e acqua per preparare un pane sottile, profumato e semplice, appena dorato per l’olio con cui lo ungono per cucinarlo e che mangio con loro, condividendone il sapore.

Io non parlo la lingua di Socotra e della lingua araba capisco e ricordo il necessario per la sopravvivenza, ma tra noi riusciamo sempre a capirci; a gesti, con disegni sulla sabbia, con parole dal significato universale, con le donne di Qabahan non è difficile parlare.

Lascio il villaggio  senza tristezza o malinconia perché, ad Allah piacendo, prima o poi ci rivedremo ancora.

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