Testo di Marcello Tanca – foto di Agostino Falconetti



Fragili immagini – si chiama così un progetto di recupero e valorizzazione dell’archivio fotografico storico della Soprintendenza di Cagliari: circa 7.000 lastre fotografiche in vetro risalenti a un arco temporale che va dalla seconda metà dell’Ottocento agli anni Cinquanta del secolo scorso. In un mondo nel quale la digitalizzazione e la dematerializzazione degli archivi è ormai prassi quotidiana, il fatto che siano esistite epoche che affidavano il compito di conservare e tramandare la memoria del passato a un supporto così fragile sembra rimandare a un tempo infinitamente remoto, ma che in realtà è recentissimo.

A ben guardare, Fragili immagini ci racconta la storia non di una, bensì di una duplice fragilità: la prima, palese, è quella di un supporto materiale che richiede di essere maneggiato con cautela, pena la sua distruzione; la seconda ha invece a che fare con la debolezza intrinseca della nostra memoria e la natura cangiante del ricordo che la lastra di vetro è chiamata a fissare per sempre. Le immagini sono fragili perché tale è, in ultima analisi, il loro referente, ossia il soggetto di cui l’archivio ci restituisce l’ombra: le architetture, le opere d’arte, i paesaggi sardi che oggi non ci sono più o sui quali il tempo ha impresso una serie di trasformazioni che li hanno lasciati sospesi a metà strada tra il mondo di ieri e quello di oggi.

Sappiamo che ci sono due modi di pensare il rapporto tra il passato e il presente: uno, di chiara matrice biblica, dichiara “niente di nuovo sotto il sole”; l’altro, decisamente più recente – è un verso di Borges molto caro a Luigi Ghirri – “niente di antico sotto il sole”. Attenzione, però, l’opposizione antico-nuovo funziona bene là dove questi due termini mostrano confini chiari e distinti che rendono impossibile confonderli. Invece quando pensiamo alla Sardegna dobbiamo tenere a mente proprio questo, ossia che il suo paesaggio è, per riprendere la terminologia di Paul Connerton e Tim Ingold, frutto di un processo storico di incorporazione e non di una mera sovrascrittura. La differenza è sostanziale e ci fa toccare con mano una delle specificità del territorio sardo. Non date retta a quelli che vi dicono che la Sardegna è antichissima, che qui il tempo sembra non scorrere mai e che tutto si è conservato nei secoli. Non cascate insomma nell’equivoco di guardare agli abitanti dell’isola come se calcolassero la loro età per ere geologiche anziché sul calendario; potreste rimanere delusi. La Sardegna è modernissima, e il carattere specifico della sua modernità, ciò che la rende così affascinante ai nostri occhi, è il modo in cui non ha mai rinunciato a nessuna delle sue contraddizioni storiche; piuttosto, le ha incorporate facendole dialogare tra loro. Irrisolte – forse irrisolvibili – esse fanno sì che là dove a prima vista ti pare di vedere continuità, guardando bene troverai discontinuità; là dove intravvedi fratture insanabili fiorisce l’abitudine, e i cambiamenti repentini convivono fianco a fianco alla tradizione. La Sardegna ti confonde: ama incrinare le tue certezze; non dà niente per scontato; mescola sapientemente vecchio e nuovo. In quanto tale, è già proiettata verso il domani.

Insomma, per capire l’isola – i suoi abitanti, la sua cultura e i suoi paesaggi – non basta la memoria se ad affiancarla non viene in suo soccorso l’immaginazione, cioè la capacità di vedere al di là dell’esistente, del dato immediato. Alla voce “Sardegna” il nostro atlante non registrerà soltanto la bellezza delle baie e delle cale trapuntate di oleandri, l’altopiano basaltico della Giara di Gesturi, i litorali di quarzite, le case colorate di Bosa, le falesie calcaree e le scogliere di porfido e granito o i silenzi del Supramonte, ma anche le fragilità, che non sono poche, e le sconfitte – quelle di ieri e di oggi.
A Orgosolo c’è un murales che raffigura Corto Maltese. La scritta che lo accompagna ci invita a esercitare uno sguardo errante delle cose: “In ognuno di noi c’è l’inquietudine della fuga, l’intolleranza dello spazio chiuso, del consueto. In ognuno di noi l’esploratore cerca di sopraffare il cittadino per portarlo in strada, via”.