Testo di Sabrina Maio. Fotografie di Amedeo Petrocchi.

Mi sono trovata a rispondere, a chi lo chiedesse, che Riace è un’esperienza umana più che politica, poi pensandoci bene, forse non è così. È entrambe le cose. E ciò la rende altamente politica nel senso letterale del termine. E forse è ciò che spinge tantissime persone ad andarci ed a sperimentare di persona ciò che era il modello Riace. Un esempio di integrazione a vantaggio di tutti, ma soprattutto la voglia di ritrovare un qualcosa che credevamo perso…la capacità di dare spazio e ristoro all’Altro, di farsene carico in una visione di giustizia più ampia.

 Mantenendosi lontano dal rischio di voler mitizzare il sindaco Mimmo Lucano, non si può non riconoscergli la capacità che ha avuto, nei numerosi interventi che si sono succeduti negli ultimi mesi, di toccare le corde di un profondo sentimento umano e di avere acceso con la sua spiazzante umiltà un’idea di vita possibile, partendo dall’assunto primordiale di soccorrere chi ha bisogno. Ma del sindaco si è parlato ampiamente, forse troppo. Lui stesso ne è un pò schivo.

La comunità al contrario ha voglia di parlare, si apre come un fiore con grazia e pudore a tratti. C’ è un senso di rivalsa ed orgoglio in tutti nel mostrare ciò che è stato fatto e come è stato fatto. Riace era un paese che aveva conosciuto la tristezza dell’abbandono inesorabile dei piccoli centri e che per venti anni ha visto invece ripopolarsi le strade, le scuole, le famiglie grazie all’accoglienza dei migranti. Oggi è di nuovo un paese ripiombato nella nostalgia. Fa uno strano effetto salire e scendere per le stradine strette e vedere tante case dai battenti chiusi, con piccoli segnali di vita, lasciati lì per caso a testimonianza di ciò che vi palpitava non tanto tempo fa. Arrivare a Riace non è semplice. Si  deve attraversare una Calabria ossuta con montagne selvagge ed impervie, fiumane dai letti distesi, spiagge su un Ionio azzurro, ed un’infinità di opere incompiute che svettano in alto come scheletri di dinosauri. Dopo una lunga serie di curve a serpentina tra calanchi inoperosi e colline ricoperte da uliveti sbuca il paese all’improvviso, aggrappato su una spaccatura del terreno come un ramarro. La segnaletica ed i murales per strada raccontano di umanità di vari colori e di speranze.



Riace ha la magia dei borghi antichi che svelano dopo stretti vicoletti che nulla fanno presagire, piazzette ampie ed assolate. Ci si imbatte quasi ovunque nei segni simbolici dell’accoglienza: Bandiere Arcobaleno, sculture vascello nel Villaggio Globale.

Lungo le stradine laboratori di più attività, ora dalle vetrine spente, e che raccontano all’interno un fare che è stato sospeso. 

Raccontano di diritti e di gente semplice che si è spesa per loro. Prima di perdersi nelle varie stradine di cui raccontavo, la sosta è nella piazza principale che è un belvedere sul mare giù. E’ un palcoscenico sull’infinito azzurro, tra un’atmosfera ferma e le gradinate color arcobaleno dell’anfiteatro. Il tempo si ferma in modo particolare, così come in tutti i piccoli borghi d’Italia, tra le anime anziane che stendono le loro ossa al sole e che mi raccontano le loro vite semplici. Osservo le loro pelli inscurite dal sole, i nodi ossuti delle mani mentre giocano a carte al bar di Alessio. Dei ragazzi di colore che qui hanno trovato lavoro passano al bar a bere qualcosa e ci raccontano la loro storia con un curioso e simpatico accento afro- calabrese. Qualcuno rientra dai campi e vende le arance ed i bergamotti, altri stanno sull’uscio nell’attesa che qualcosa o qualcuno passi. Qui sono abituati agli sconosciuti, non solo ai migranti. Nessuno è temuto perché nessuno qui è straniero.

Ricorre continuamente la domanda circa la nostra provenienza con la stessa grazia dell’amico che ti chiede con affetto come stai. A riprova di questo gli usci di casa sono aperti, ed i frutti della terra si donano e si fanno assaggiare. Le signore si prestano spontaneamente  ad aiutare le poche persone rimaste dopo l’entrata in vigore del decreto Salvini e tutte ricordano la notte di vent’anni fa, la notte dei Curdi. La notte in cui tutti i naufraghi curdi furono accolti nelle case vuote del centro storico, a cui in processione gli abitanti di Riace portavano l’essenziale per una normale e decente esistenza. 

Lo spirito di accoglienza della gente di qui è rimasto inalterato, nonostante siano successe tante e troppe cose. Il vissuto di questa gente è un rosario di gesti per sè e per gli altri. E soffia il vento tra le case, qualcosa potrebbe far pensare ad un rassegnazione ma cosi non è. Non ci siamo rassegnati noi che in tanti siamo venuti, come in pellegrinaggio, e che ci siamo ritrovati da ogni parte d’Italia e d’Europa qui per il Capodanno. Non si sono rassegnati coloro che ci vivono. L’inizio di un nuovo anno, l’inizio/ripresa di un progetto di accoglienza. “E’ stato il vento“, questo il nome della fondazione che chiama tante realtà associative e tante persone singole che hanno fede in un’Idea, che hanno fede nell’umanità nella sua massima forma di semplificazione,e che riprenderà il discorso dell’accoglienza tramite i corridoi umanitari e dell’integrazione senza il sostegno di fondi pubblici. Questo è stato il senso del voler festeggiare qui in tanti  un nuovo anno, la speranza e la luce sul volto di ognuno di perseguire ciò che è giusto, la voglia di far sapere che ci siamo e che diamo pieno sostegno a questa comunità simbolo.

Noi viviamo in un mondo composto dalla prevalenza delle parole sui fatti. Le parole sono tante e sono forti, ci inondano. Ma Riace è e resta un luogo a sè, un ritrovo di buone azioni e di energie, come quelle che sprizzano dagli occhi dei bambini e delle persone accolte. Il nuovo mondo che avanza inarrestabile.  Danilo Dolci sosteneva che solo ciò che è necessario si avvera, anche se difficile. E aiutare gli altri, a prescindere dalla provenienza, è necessario.