Testo di Marco Lovisolo

“Col passare degli anni ho continuato a seguire le vicende della Cambogia, finché questo paese è diventato per me la scoraggiante riprova di come al mondo non c’è giustizia, di come l’umanità ha perso la capacità morale di indignarsi e di come la vita finisce sempre per trionfare sulla morte, ma lo fa nel più primitivo e crudele dei modi.”
Tiziano Terzani

Guardo con attenzione l’uomo di fronte a me. Ha un sorriso cordiale, ma i segni e le rughe sul volto nascondono la sua età. Potrebbe avere trent’anni come cinquanta.
“Amico, ti serve un taxi?” mi chiede.
Sì, in effetti un taxi mi servirebbe; voglio raggiungere i famigerati campi di sterminio di Choeung Ek, a una decina di chilometri da Phnom Penh, in Cambogia.
Gli restituisco il sorriso e gli spiego dove voglio andare. L’espressione sul suo volto cambia, ma business is business: trattiamo il compenso, montiamo sul motorino e ci infiliamo in mezzo al traffico che si muove sulle strade fangose di Phnom Penh.
Lungo il percorso se ne sta zitto, pensieroso, fino a quando, improvvisamente, mi chiede:
“Perché vuoi andare a Choeung Ek?”
Già. Perché? E’ da stamattina, appena sveglio, che mi gira in testa questa domanda. Non lo so, non ho una risposta precisa. So che devo farlo. Forse voglio solo avere un’ulteriore conferma di quanto bestiale possa essere l’uomo.

Il mio nuovo amico mi racconta che parte della sua famiglia è stata deportata e uccisa a Choeung Ek durante le folli epurazioni volute da Pol Pot. All’epoca lui era poco più di un ragazzo.

Silenzio.

@robyoung licenza CC

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Arrivato di fronte all’ingresso del campo, scendo e mi guardo intorno. L’atmosfera, già qui fuori, è greve, pesante, come se il terrore di questo posto fosse ancora tangibile. Nessuno parla, il silenzio è opprimente e l’unico rumore che si riesce a percepire è il fruscio lontano del vento.
Scruto il cielo: ha un colore grigio scuro ed è pieno di nubi che rendono il clima ancora più umido del solito. Mi incammino verso il cancello di ferro, ascoltando i miei passi che risuonano sordamente sul terreno fangoso, compro un biglietto ed entro.
Intorno a me si apre un parco attraversato da piccole strade sterrate. Percorrendo questi sentieri capita di imbattersi in chioschi colorati che vendono bibite e acqua; vicino ai chioschi ci sono dei tavolini e degli ombrelloni. In lontananza si intravede anche un piccolo lago.
Ci hanno provato. Hanno provato a trasformare Choeung Ek in un giardino, ma non ci sono riusciti. Il posto è spettrale, lugubre, ancora intriso del dolore di migliaia di uomini, donne e bambini che qui sono stati trucidati dagli sgherri di un regime guidato da un rivoluzionario accecato da un sogno criminale.
Proseguendo lungo i viottoli, i chioschi lasciano il posto a degli scarni cartelli che in modo asettico ti spiegano come venivano portate a termine le torture e le esecuzioni. A volte da terra spunta un pezzo d’osso, un cencio, un piccolo braccialetto, adatto a una bambina di sette-otto anni.

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Le fosse comuni sono state lasciate volutamente aperte, in modo da dare ai visitatori l’opportunità di coglierne l’ampiezza e comprendere come al loro interno si potessero seppellire sommariamente centinaia di persone. Posare lo sguardo su questi campi è come osservare un corpo pieno di ferite che non si possono rimarginare.

Nel mezzo del campo principale c’è un edificio bianco all’interno del quale sono stati depositati i resti di novemila vittime, ritrovate nelle fosse, legate e bendate. Le ossa e i crani sono stati disposti su degli scaffali che occupano interamente le quattro pareti dell’edificio; quelle sul livello più alto appartengono a bambini di pochi anni. Guardi quelle orbite vuote, quelle mascelle spalancate, quel cranio sfondato e ci trovi l’espressione di chi è appena morto, ucciso dai colpi di un martello o di un bastone, perché i proiettili hanno un costo e la vita di certe persone non vale tanto.

Nemmeno quella dei neonati, ammazzati brutalmente, scaraventati contro un albero o infilzati con le baionette davanti agli occhi delle madri.

Non c’è molta gente qui, a Choeung Ek. Io, qualche altro turista che si muove silenzioso e alcuni cambogiani dallo sguardo assente. Sono gli inservienti del luogo, addetti alla manutenzione, guide turistiche. Se li osservi con discrezione, puoi notare i loro movimenti narcotizzati, assenti, come se non fossero qui. E’ probabile che ognuno di loro, come il tassista che mi ha portato, abbia perso qualcuno qui, a Choeung Ek.

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Come è potuto accadere? Come ha potuto un piccolo gruppo di individui dare il via a un periodo di terrore nel corso del quale hanno perso la vita più di due milioni di persone?

Fino al 1970 la Cambogia condusse un’esistenza pacifica e quasi sconosciuta al resto del mondo. Il sovrano, Sihanouk, era un abile politico, capace di rimanere estraneo ai conflitti che infiammavano i vicini Vietnam e Laos. Sihanouk era conoscenza del fatto che alcuni territori di confine erano utilizzati dai vietcong per il trasporto di armi e rifornimenti, ma per evitare ogni forma di coinvolgimento, fingeva di non vedere. La traballante neutralità cambogiana era guardata con stizza dagli Stati Uniti, che decisero, di punto in bianco, di intervenire e rovesciare il legittimo governo di Phnom Penh.

Nel marzo del 1970 l’allora Primo Ministro Lon Nol approfittò dell’assenza di Sihanouk e, con un colpo di Stato organizzato dalla CIA, assunse il potere e si schierò apertamente dalla parte degli Stati Uniti nella loro crociata “liberatoria” contro i governi comunisti del sudest asiatico. Colto alla sprovvista, Sihanouk si rifugiò immediatamente sotto l’ala protettrice cinese e, soprattutto, commise il più grave degli errori: si alleò con un piccolo gruppo di guerriglieri comunisti dei quali nulla si sapeva. Si facevano chiamare khmer kraham, i khmer rossi.

A differenza dei più celebri vietcong, i khmer rossi continuarono a operare nell’ombra. Poco alla volta riuscirono a conquistare il controllo delle campagne e dei piccoli centri urbani, mentre le loro fila si ingrossavano costantemente grazie al continuo reclutamento di persone disgustate dal governo fantoccio di Lon Nol e dall’ingerenza degli USA nella politica interna del Paese. Giunsero infine a circondare la stessa Phnom Penh, che, in seguito a un lungo assedio, cadde il 17 aprile 1975.

Una volta raggiunto il potere, i khmer rossi gettarono la maschera e si mostrarono per quello che erano veramente: un branco di feroci assassini guidati da un leader fanatico. Nel giro di pochi giorni milioni di persone furono deportate nelle campagne e obbligate a prendere parte al processo di ricostruzione della Cambogia, una serie di opere colossali quanto inutili, ritenute necessarie per il Paese. L’intera popolazione cambogiana fu ridotta ai lavori forzati e obbligata a vivere nel continuo terrore di finire sotto l’occhio indagatore dell’Angkar Loeu, l’organizzazione suprema.

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Nel frattempo si poté procedere con l’eliminazione fisica delle persone che avevano avuto legami con il governo precedente: ufficiali dell’esercito, quadri di partito, funzionari civili. Seguirono gli intellettuali, i professori, gli studenti e in genere chiunque fosse in grado di leggere o scrivere; molti furono dapprima rinchiusi nella prigione Tuol Sleng a Phnom Penh, poi trasferiti a Choeung Ek, uccisi a badilate e seppelliti nelle fosse comuni. Centinaia di migliaia di persone morirono nel tentativo di attraversare i confini minati, altri a causa della mancanza di cibo.

Il terrore che si abbatté sulla Cambogia ha un nome: Pol Pot. Nato nel 1925 con il nome di Saloth Sar, si trasferì in Francia alla fine degli anni Quaranta. A Parigi si formò alla scuola del marxismo radicale e in seguito tornò in Cambogia, trovò lavoro come maestro di scuola, e condusse un’esistenza anonima fino a quando divenne il leader e il volto ufficiale dei khmer rossi.

Una delle giustificazioni più comode che ci è stata raccontata per decine di anni è che Pol Pot fosse pazzo. Errato. Pol Pot era lucidissimo e perfettamente cosciente di ciò che stava facendo. Era un rivoluzionario e come tutti i rivoluzionari voleva costruire una società nuova. Da questo punto di vista il suo comportamento era del tutto simile a quello di Mao Zedong o Fidel Castro. L’unica differenza era la velocità di esecuzione: Pol Pot voleva creare una società radicalmente nuova nel minor tempo possibile e per questo motivo adottò le misure più drastiche.

Nel 1979 il Vietnam, appoggiato dall’URSS, invase la Cambogia e rovesciò il governo di Pol Pot, il quale si rifugiò nella foresta e diede inizio a una guerriglia interminabile che si protrasse per tutti gli anni Ottanta. Nel frattempo, grazie all’appoggio USA, quello di Pol Pot veniva riconosciuto come unico governo ufficiale, tanto che il seggio cambogiano all’ONU era occupato da rappresentanti dei khmer rossi.

Le mutate condizioni geopolitiche degli anni Novanta imposero una rottura dello stallo: l’enormità dei crimini compiuti dai khmer rossi, grazie alla collusione con gli USA, emerse in tutto il suo fragore e divenne così imbarazzante per tutte le grandi potenze mondiali che l’ONU decise di inviare una “missione di pace” nella penisola con il dichiarato scopo di disarmare tutte le fazioni presenti sul territorio.

E si giunge alla beffa finale: in nome della riconciliazione i khmer rossi non furono mai giudicati per i loro crimini e poterono condurre il resto delle loro vite negli agi e nel lusso. Lo stesso Pol Pot morì nel suo letto nel 1998.

Pol Pot può essere considerato a tutti gli effetti uno dei personaggi più sanguinari della storia umana. La sua visione di un futuro diverso per la Cambogia ebbe come conseguenza la morte di due milioni di persone e la totale distruzione economica, sociale e culturale di un Paese. Siamo di fronte a quello che può essere definito a pieno titolo “genocidio”, simile in tutto e per tutto a quello operato da Hitler nei confronti degli ebrei. Choeung Ek, vista la sua vicinanza a Phnom Penh, è semplicemente il campo di sterminio più rinomato, ma si tratta della classica goccia nel mare. Di campi simili ne è costellata l’intera Cambogia e alcuni di essi non sono ancora stati scoperti.

Eppure questo massacro, ancora oggi è poco conosciuto. Perché i crimini di Hitler e della Germania nazista sono stati inequivocabilmente riconosciuti come tali e quelli di Pol Pot no? Perché il 27 gennaio è diventata una ricorrenza internazionale celebrata come “Giorno della Memoria” in commemorazione delle vittime dell’Olocausto e il 9 maggio, “Giorno del Genocidio” cambogiano, è sconosciuto ai più? Forse perché gli ebrei massacrati dai nazisti erano dei ricchi dalla pelle bianca mentre i cambogiani erano dei poveri dalla pelle scura? O forse perché tutte le grandi potenze mondiali, per biechi motivi di opportunità, erano in qualche misura coinvolte e si sono ritrovate impantanate in una palude dalla quale era impossibile uscire con le mani pulite?

Con il cuore pesante abbraccio per l’ultima volta con lo sguardo questo luogo maledetto. Sento una risata gioiosa e la cerco con gli occhi. In lontananza vedo un bambino di quattro o cinque anni che corre lungo il bordo di una fossa comune, facendo volare un aquilone viola. Un bambino come migliaia d’altri che qui hanno perso la vita e ogni possibilità di futuro. Ma lui è qui, incurante di correre su un campo di morte, felice per quell’aquilone sgangherato che, a fatica, rimane sospeso in aria. Mi piace pensare che al suo fianco ci siano anche quei bambini che qui, a Choeung Ek, sono stati uccisi, tutti con il naso all’insù e lo sguardo acceso rivolto verso quell’aquilone. La capacità di rinascere, di ricostruire a volte parte dalle piccole cose, forse anche da un semplice aquilone viola.

E a quel punto, nonostante la tristezza, nonostante ancora una volta abbia preso coscienza della pazzia degli uomini, nonostante tutto, sorrido.