Felicetta Ferraro

A cura di Valentina Cabiale / Foto di Andrea Semplici.

Nell’ultima cerimonia degli oscar il premio di miglior film è andato ad Argo, il film di Ben Affleck incentrato sull’assalto all’ambasciata americana a Teheran del 1980 e in particolare sui 6 ostaggi americani che si nascosero nella casa del console canadese e furono riportati rocambolescamente in patria pochi mesi dopo. Cosa ne pensa del film?

Non mi è piaciuto. Non è tanto la ricostruzione dei fatti a non avermi convinto. A non piacermi sono stati il modo di rappresentare l’Iran, le atmosfere di cui è pervaso il film. Gli iraniani sono presentati come fanatici, con le facce distorte dall’odio antiamericano e dal furore rivoluzionario: è lo stesso approccio che l’occidente ha avuto nei confronti della rivoluzione islamica del 1979, vista come un prodotto dell’agire di masse di fanatici retrogradi ed ignoranti. E’ questo genere di approccio che ha impedito ed impedisce una comprensione reale e completa dei fatti, e mi sembra incredibile che ancora nel 2012 venga riproposto lo stesso modello stereotipato. Dal modo in cui l’Iran è stato ed è rappresentato dai media occidentali si possono comprendere molte cose. Confrontiamo ad esempio l’immagine di Iran proposto prima e dopo la rivoluzione. Durante il governo dell’ultimo scià l’Iran in Europa e negli Stati Uniti era visto come un paese da favola, era la Persia favolosa, una terra di arte, tappeti, poeti, petrolio e favolose ricchezze. In realtà in quegli anni il paese era in condizioni difficili, politicamente e socialmente, con un’ampia parte della popolazione in condizioni di povertà; lo scià cercava di imporre una modernizzazione superficiale, per la quale tra l’altro l’Iran non era ancora pronto, e di conseguenza priva di effettivi benefici per la maggior parte della popolazione.  Ma di tutto questo, della corruzione, delle spese folli, dei vaneggiamenti di un sovrano che aspirava ad entrare nella Storia schiacciando il suo popolo e ignorando i tempi necessari di uno sviluppo economico duraturo, non si parlava. La rivoluzione ha comportato un brusco risveglio. In occidente è stata vista come un pericolo, una minaccia per l’ordine esistente. Per assecondare questa interpretazione distorta si è arrivati persino a ritoccare le immagini della rivoluzione; basti pensare alle fotografie di Khomeini che giravano in occidente, diverse da quelle presenti in Iran, ritoccate (la curva delle sopracciglia, i peli del naso, le rughe a ghigno) per rendere l’aspetto “satanico” del personaggio. Oggi le rappresentazioni più diffuse dell’Iran sono le turbine della centrale nucleare di Natanz, Ahmadinejad che gira con il camice bianco per la centrale e ancora le immagini della folla, soprattutto composta da donne ricoperte di nero, con il pugno alzato, che reclamano non si sa cosa; folle che di fatto non esistono più, tanto che spesso vengono riproposte immagini e fotografie risalenti al primo periodo della rivoluzione.

Nel giugno 2013 ci saranno le votazioni per l’elezione di un nuovo presidente. Ahmadinejad non potrà essere rieletto. Come vede l’attuale scenario politico interno?

È molto difficile leggere la situazione interna del paese e fare previsioni. Sicuramente l’attuale sistema politico è in crisi, manca di compattezza interna, ma questo non significa che stia per sparire. Esistono fronti diversi: da una parte quello di Khamenei con una parte dei pasdaran, dall’altra il fronte di Ahmadinejad, e ancora un altro gruppo legato all’ex presidente Rafsanjani, oltre a gruppi riformisti legati a Khatami, la cui influenza è però piuttosto limitata.

 Come valuta le proteste del 2009 (movimento c.d. “Onda Verde”) seguite alla rielezione di Ahmadinejad, secondo molti favorita da brogli elettorali? Sono state gonfiate dai media occidentali per mostrare che esisteva un’opposizione al governo “nemico” di Ahmadinejad?

Sicuramente le proteste sono state enfatizzate, non erano numericamente così rilevanti da poter cambiare il destino del paese, ma ci sono state e il dato politico è importante. Fino a qualche anno fa una protesta simile sarebbe stata impensabile. Scendendo per strada per chiedere “dov’è il mio voto?” gli iraniani hanno dimostrato di conoscere l’importanza, il valore e il peso del voto. La consapevolezza del potere come elettori  e l’affermarsi del valore della partecipazione sono stati una conseguenza indiretta ma importante della rivoluzione. La mobilitazione che essa ha comportato ha creato nuove forme di partecipazione politica che hanno coinvolto fasce della popolazione emarginate da sempre ed escluse da qualsiasi processo decisionale. Trent’anni dopo, nel 2009, una parte di queste stesse persone, e soprattutto i loro figli, nel momento in cui hanno avuto il sospetto che la vittoria di Moussavi (il leader riformista oggi ancora agli arresti domiciliari, ndr) fosse stata cancellata con la frode non hanno esitato a scendere per strada. È un grosso passo avanti, anche se nessuno può negare che Ahmadinejad abbia ricevuto realmente moltissimi voti.

 Pensa che anche in Iran potrà esserci, in tempi brevi, una “rivoluzione” come in altri paesi medio-orientali e nord-africani, una “primavera iraniana”?

Non vedo né i sintomi né i presupposti di un’altra rivoluzione. È però evidente e inarrestabile la richiesta di un sistema politico più aperto e questo processo non sarà privo di tensioni. Dal ’79 la società iraniana è mutata profondamente, paradossalmente secondo dinamiche innestate dalla rivoluzione stessa. Sintetizzando questo paradosso si può dire che la rivoluzione ha attuato, non sempre coscientemente, quella modernizzazione che lo scià aveva cercato inutilmente di imporre dall’alto. L’islamizzazione della società ha permesso ad esempio alle donne di uscire all’esterno senza più limiti, un fenomeno racchiuso tra le militanti islamiche nell’espressione “chador passepartout”; l’educazione scolastica è stata estesa a tutte le classi sociali e in tutte le aree del vasto territorio iraniano; sono stati portati alla ribalta ceti sociali prima esclusi, creati cittadini, consolidati spazi politici, fatto emergere una società civile. Messo di fronte alla dura realtà del governo, si è modernizzato anche il clero ed è addirittura da alcune sue componenti che si sono levate le voci di riforma del sistema, fatte immediatamente proprie dai due raggruppamenti oggi più attivi nella ricerca di cambiamento: i giovani e le donne. Questi due gruppi sono stati anche i protagonisti di una rinascita artistico-culturale che ha preso il via alla fine degli anni ’90 e che censura, repressione e restrizioni finanziarie non sono servite ad arrestare. La gioventù iraniana ha una buona cultura, è dinamica, curiosa, aperta al mondo e disponibile al dialogo. Come altrove, questi giovani, la cui vitalità è un dato di fatto riconosciuto da chiunque abbia un minimo di familiarità con l’Iran, vogliono partecipare alla società dei consumi e vogliono avere accesso alla cultura internazionale. Di pari passo, però, si sono affermate le élites sorte dal clero, dalla rivoluzione, dalla guerra che chiedono in cambio dei sacrifici fatti il controllo dei centri politici ed economici ed il potere per salvare l’Iran da quello che viene percepito come un nuovo tentativo di “colonizzazione” occidentale. Se i giovani considerano spesso semplice retorica gli slogan rivoluzionari e aspirano all’ingresso nel mondo globalizzato, i loro padri, che la rivoluzione l’hanno fatta, non sono disposti a rimettere tutto in gioco per il timore di perdere privilegi, posizione sociale, interessi economici anche molto importanti; e per non rischiare che il paese si frantumi sotto il peso delle bombe occidentali, come è successo intorno a loro. La frattura tra la società reale ed un potere politico sempre più arroccato e dilaniato da una evidente lotta interna è sicuramente molto profonda, ma oggi più che mai l’Iran va letto al di là degli stereotipi se non si vuole incappare in errori che possono avere conseguenze tragiche.

Lei è tra i fondatori di una casa editrice, “Ponte 33”, che pubblica (unica in Italia) letteratura contemporanea tradotta dal persiano. La letteratura iraniana famosa in Europa e negli Stati Uniti è scritta in prevalenza da autori che non vivono più in Iran da anni; è così anche per quella che pubblicate?

La nostra scelta è stata quella di tradurre e pubblicare scrittori contemporanei di lingua persiana, iraniani e afghani, dal momento che si tratta di una letteratura in Italia decisamente poco conosciuta. La nostra attenzione, quindi, è per chi scrive in persiano, con un occhio privilegiato per chi vive in Iran. Tra l’altro, gli scrittori “iraniani” che vivono da tempo fuori dall’Iran scrivono spesso in lingue diverse dal persiano.

E raccontano spesso la loro storia di fuga ed esilio dall’Iran, l’opposizione (in particolare se donne) contro le convenienze sociali e famigliari, oppure lo straniamento che nasce dal vivere come profughi in un altro paese. Cosa pensa di questo genere di letteratura, il più diffuso sul mercato editoriale occidentale? L’esempio più famoso è Leggere Lolita a Teheran di Azar Nafisi.

Leggere Lolita a Teheran è un caso emblematico. È un libro interessante ma che descrive una particolare situazione del periodo immediatamente postrivoluzionario. E’ la riflessione di una donna, che viveva ormai da anni negli Stati Uniti e che racconta, esasperandone i tratti negativi, la propria personale esperienza, che non è stata quella di tanti altri iraniani. Fattori fondamentali per il successo del libro sono stati sicuramente il titolo, decisamente indovinato, e la macchina promozionale che è stata montata intorno, ma esso non rispecchia la realtà attuale del paese piuttosto rimanda ad un’immagine che il lettore occidentale si è già precostituito ed ama ritrovare: quella di un paese retrogrado, culturalmente represso e politicamente “irrazionale”. In Iran, il dibattito intellettuale è vivace e la scena culturale variegata, ma la potenza di quel titolo nel mistificare questa realtà è stata terribile.

Com’è cambiata la letteratura iraniana del corso dell’ultimo secolo e cosa si scrive oggi in Iran?

Per tradizione la forma letteraria privilegiata nella letteratura iraniana è sempre stata la poesia. Nel XX secolo ha iniziato a diffondersi una prosa narrativa a imitazione dei modelli occidentali e, dagli anni ‘40/’50, una letteratura di impegno, volta soprattutto all’educazione delle masse. Sotto la pressione della censura e della Savak, la terribile polizia segreta dello scià, quest’ultima produzione ha assunto un carattere via via più criptico, con una scrittura sempre più ammantata di simbolismo, difficile da comprendere per molti potenziali lettori. Dopo la rivoluzione la situazione è molto cambiata. Il tasso di scolarizzazione si è alzato di molto, la letteratura di è aperta verso un pubblico più vasto. Molte più persone hanno sentito l’esigenza e hanno avuto la possibilità di scrivere, senza avere come scopo l’imitazione di un modello o fini educativi. Oggi lo scrittore non proviene esclusivamente dalla fila degli intellettuali ma può essere chiunque. Il primo romanzo che abbiamo pubblicato, “Come un uccello in volo”, è stato scritto da una donna, Fariba Vafi, proveniente da una famiglia modesta di Tabriz, una città a nord dell’Iran, diventata scrittrice affermata dopo un’esistenza normale, trascorsa facendo i lavori più disparati prima che un suo racconto venisse notato da un critico. Il suo romanzo, che ha vinto il premio Golshiri (che può essere considerato l’equivalente del Premio Strega), racconta il viaggio interiore di una giovane donna alle prese con le normali difficoltà come madre, moglie e figlia; non è la storia di una donna che combatte contro la società, contro la famiglia e contro il marito come nel tipico modello femminile iraniano / mussulmano proposto continuamente sul nostro mercato editoriale. E poi sono cambiati anche i lettori, diffusi tra tutte le classi sociali e tra tutti i raggruppamenti di età.

 In Iran ci sono molte case editrici? Esiste una forte censura sulla produzione letteraria?

In Iran c’è sempre stata una qualche forma di censura. Nonostante ciò, forme artistiche di grande valore si sono sviluppate all’interno dei paletti imposti. Basti pensare al cinema di Kiarostami. La stessa cosa, un po’ meno, è avvenuta nella letteratura. Negli ultimi decenni le maglie della censura si sono fatte più strette, e i tempi per ricevere il permesso alla pubblicazione si sono allungati; molti libri rimangono accatastati per mesi negli uffici preposti al controllo. Si censura soprattutto il sesso e quello che appare come una critica contro il governo. La censura tuttavia è ondivaga, non è un sistema rigidamente organizzato; a volte passano libri che non ci si aspetterebbe che vengano pubblicati. Le case editrici sono tante; si produce molta letteratura e tantissima traduzione di testi stranieri, anche di intrattenimento, cucina, ecc. E da parecchio ormai sono sorte catene di grandi librerie (tipo le nostre Feltrinelli per intenderci) che stanno prendendo il posto delle librerie tradizionali situate in genere lungo le vie vicino alle università.

Molti degli autori che pubblicate sono donne e i protagonisti dei romanzi sono spesso femminili. Sulle copertine dei vostri libri, però, non compare la solita donna velata: è una scelta grafica deliberata?

Sì. La copertina tipo dei romanzi noti in occidente presenta delle donne, solitamente bellissime, velate. A volte è addirittura capitato che una stessa copertina sia stata utilizzata per più di un romanzo, magari in un diverso paese. Noi invece non scegliamo le copertine da un catalogo di immagini già pronte ma le facciamo disegnare singolarmente da un artista iraniano, un giovane grafico  molto noto. E’ una scelta che ha molti vantaggi e ha riscosso critiche positive (il nostro ultimo libro, I fichi rossi di Mazar-e Sharif, ha addirittura avuto una recensione dedicata solo alla copertina!), ma non sempre è facile da gestire, anche solo per le tempistiche di realizzazione, che non possono essere rapidissime.

 Quali sono le contraddizioni e la contemporaneità vissuta da una donna oggi in Iran, al di là degli stereotipi?

La vita delle donne in Iran è sicuramente migliore che in altri paesi mussulmani, come Pakistan e Afghanistan. Le donne sono sempre state protagoniste della società iraniana, non sono mai state messe sotto il tappeto come in altri paesi. Negli ultimi anni hanno acquisito molti diritti e oggi possono fare qualsiasi cosa, tranne i giudici e il presidente della repubblica, gli unici lavori ancora preclusi. L’inserimento nella società è massiccio e accettato. Diversa è invece la situazione a livello normativo, dove sussistono limitazioni e una seria discriminazione. In questo ambito le leggi emesse al tempo dello Scià erano decisamente più avanzate. La contraddizione principale è proprio questa: mentre la realtà sociale è più progressista oggi, e le donne sono forse gli elementi più attivi nella società, il quadro normativo-giuridico non le mette sullo stesso piano degli uomini. La lotta delle donne iraniane si è quindi focalizzata contro alcune leggi ingiuste e discriminanti e sul riconoscimento di sempre maggiori diritti; in questo senso le loro battaglie non sono molto diverse da quelle che abbiamo sostenuto noi per l’aborto, il divorzio, ecc.

 Anche la questione del velo è mal posta?

E’ assolutamente mal posta. In occidente il velo è interpretato come elemento cardine della condizione sociale di sottomissione della donna. Il velo o il chador non sono però oggi elementi che limitano la presenza delle donne nella società, e non è con o senza il velo che cambia il destino delle donne, ma grazie a quelle leggi che dicevo prima. Certamente, in nome della libertà dell’individuo, un governo non dovrebbe imporre di indossare il velo e molti iraniani, donne e uomini, sono assolutamente contrari. Di recente, si è diffuso su Facebook un movimento che chiede l’abolizione dell’obbligatorietà del velo, ed è sostenuto sia da donne che non vorrebbero andare in giro coperte, sia da donne che lo indossano per scelta. Il tema è molto caro alle donne occidentali ma spesso è un problema esasperato dalla nostra sensibilità, dalla nostra visione del corpo femminile e non è detto che sia una priorità per le donne mussulmane che hanno ben altri problemi da affrontare.

Quali sono i progetti futuri della casa editrice?

Il progetto più immediato è quello di cercare di aumentare, in tempi brevi, il nostro catalogo. Un  proposito che avevamo inizialmente, quello di far uscire una collana saggistica di testi sull’Iran, forse è di difficile realizzazione; pensiamo invece di poter iniziare a pubblicare una collana di poesia contemporanea. Vorremmo cercare di raggiungere una maggiore solidità come casa editrice, all’interno di un mercato che è pur sempre di nicchia e nel quale la sopravvivenza materiale non è semplice.

 

Felicetta Ferraro è specializzata in studi storico-sociali sull’Iran. Ha insegnato storia dell’Iran presso IUO di Napoli ed è stata addetto culturale in Iran. Dirige la casa editrice “Ponte 33”, specializzata in letteratura contemporanea in Iran e Afghanistan. Ha vissuto in Iran a lungo in diversi periodi tra cui 6 mesi nel 1982, durante la guerra. È tra gli organizzatori del “Middle East Festival”.