Cartolina di Marta Gaggini

Barcellona è terra d’indipendenza. Ti accoglie all’aeroporto sospingendoti ferma e gentile verso il ritiro bagagli con indicazioni in catalano. Quando esci ti sbatte nel modernismo, a leggere una dichiarazione di autonomia incisa sulle facciate risolute del Passeig de Gracia.

Barcellona è terra di sfida. Colombo se ne sta qui sulla sua colonna a rivendicare la sua conquista, trasformando l’America nella sua personale rivincita. E Gaudì combatte contro i canoni della geometria classica e contro quelli dell’opinione pubblica novecentesca.

Barcellona è terra di cambiamento. La Sagrada Familia si impone senza concorrenza sullo skyline di questa città priva di elevazione, con le torri e le gru che svettano su un tappeto residenziale. E la Sagrada Familia continua a cambiare. La trovo, a distanza di anni, sempre in costruzione, fedele a sé stessa ma ogni volta diversa, quel tanto che basta per poter sorprendere la città quando davvero sarà terminata, come se nonostante le avvisaglie la cattedrale volesse comunque coglierci di sorpresa. Ma lo stupore sta soprattutto nello scoprire le evoluzioni del cantiere. Sta in un cambiamento che dipende dalla percezione. Come le palme di Placa Reial che ogni volta che torno sembrano cambiare dimensione. E come l’estensione di questa città che d’improvviso mi sembra minuscola, bassa, chiusa fra le montagne, raccolta tra la collina di Montjuic e le torri dell’Hotel Arts, dominata dall’emblema in continua evoluzione di questa terra fiera e vulnerabile.

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Tornando in questa città sarebbe un insulto passeggiare sulle Ramblas sempre con le stesse scarpe. Se Barcellona cambia è, in fondo, soprattutto perché cambia il nostro modo di guardarla. Barcellona non è infatti la sola a sfidare sé stessa e a combattere per l’indipendenza. Ognuno di noi è un cantiere, come la Sagrada Familia.

La prima volta che sono venuta in Spagna era la prima volta che andavo con gli amici in vacanza. Avevo vent’anni, dormivo in ostello e portavo le Birkenstock. Costrinsi il mio fidanzato di allora a visitare il Museo di Mirò invece che lo stadio. Non so come sia riuscito a perdonarmelo. Sono tornata a distanza di qualche anno. Ero in vacanza con la mamma su una nave da crociera. Non me ne vogliate, da bambina volevo fare la marinaia. Portavo scarpe da ginnastica e l’orgoglio di tornare in una città che credevo già di conoscere, immortalata dagli azulejos delle panchine di Parc Guell. Quando ho rivisto Barcellona per la terza volta portavo i mocassini. Era passato più di qualche anno, come si intuisce dalla portata di un tale cambiamento. Scendevo ancora una volta da una nave, ma stavolta ero un membro dell’equipaggio. Non ho fatto la marinaia, ma Barcellona era comunque testimone di un sogno, che si raccontava nel sole di Placa de Catalunya e nei camini a forma di guerriero della Pedrera. Lì è stato quando ho smesso di dire addio alle cose, perché Barcellona era testimone del fatto che la vita ha in serbo sorprese inaspettate. E infatti non mi aspettavo che sarei stata qui, adesso, portando le scarpe col tacco, in alberghi a cinque stelle. Sono qui per lavoro, com’è evidente. Con la scusa di organizzare un evento, allo stadio ci sono già tornata due volte. Come la Sagrada Familia, però, anch’io sono cambiata restando comunque fedele a me stessa.

Ed è questo che Barcellona mi insegna. Ogni volta, e più di qualunque altra città in cui abbia portato i miei gusti in fatto di scarpe. Perché Barcellona resta, nonostante i tempi che passano e le sfide che li riempiono, intatta. Sempre giovane, sempre entusiasta. Rincuorante come una vecchia amica che ti riconosce nonostante i continui lavori in corso. Ma anche Barcellona si ritroverà a sorprendersi all‘improvviso di quella che è diventata, e io aspetto, come una vecchia amica, che succeda.

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