Dimenticate le mischie del rugby. Dimenticate gli schianti dell’hockey o gli scontri del football americano. Dimenticate persino le botte della boxe. Tutti questi sport sembrano roba da bambini, se paragonati al Buzkashi. Lo sport dei nomadi, delle steppe, dei cavalieri. E’ questo il vero gioco per gente dura.

Sono i giorni del Nawruz, il Nuovo Anno persiano. Qui in Tagikistan è una festa molto sentita, e a volte gli uomini dei villaggi e delle città la celebrano sfidandosi a Buzkashi. Viene spesso paragonato al polo, ma sarebbe come paragonare una carezza a una sberla. E’ un gioco per folli, devonaho, come dicono i miei amici locali. Di una pericolosità illogica e al tempo stesso affascinante. Chi ci gioca, a volte ne ricava emorragie cerebrali o cadute violente. Talvolta la morte. Il semplice fatto che qui, nei pressi di Dushanbe, lo giochino sull’orlo di un burrone la dice lunga su quanto sia rischioso. Si dice peraltro che a chi muore nel Buzkashi vengano chiuse in faccia le porte del Paradiso, perché tale morte equivale ad un suicidio.

Si aggiungano poi gli altri ingredienti: il gioco consiste nell’afferrare una carcassa di capra del peso di circa quindici chili, stando a cavallo, per poi trascinarsela per alcune centinaia di metri fino ad un traguardo. Il peso della carcassa da trascinare, unito alla velocità del galoppo, spiana i cavalieri all’indietro sulla schiena del cavallo, costringendoli a cavalcare in una posizione assurdamente scomoda, con il corpo interamente esposto ai violenti colpi altrui. Colpi duri, perché ogni cavaliere gioca contro tutti gli altri, e tutti cercano di strappargli la capra, colpendolo con calci e frustate, strattonandolo, percuotendolo. E’ uno spettacolo inimmaginabile.

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Alla partita a cui assisto partecipa un centinaio di pazzi. Tutti rigorosamente uomini. Persino nel pubblico c’è una sola donna, evidentemente a disagio. Ogni cavaliere ha un equipaggiamento ridotto all’osso: una sella, una frusta corta e un elmetto da carrista sovietico fatto di tela imbottita, per “proteggersi”. Il primo premio in palio è un lettore DVD; gli altri trofei sono via via meno prestigiosi. Per averli, se le danno di santa ragione. Durante un Buzkashi in un paese vicino si dice che abbiano partecipato un migliaio di cavalieri, e che il primo premio fosse un fuoristrada Lexus (uno status symbol, qui). Non oso nemmeno immaginare cosa significhi lottare per portare la maledetta capra al traguardo mentre centinaia di persone armate di frusta e smaniose di mettere le mani su una Lexus nuova di zecca cercano di impedirtelo.

Ho il sospetto, però, che qui il premio sia solo un dettaglio: un contendente con cui parliamo, uscito dalla gara a causa di una ferita, ci dice che è deluso perché aveva risparmiato per settimane, in Russia, per poter rientrare in aereo ed essere qui oggi a giocare. Per quanto economica sia la compagnia aerea tagika, di certo un biglietto costa molto più di un lettore DVD. Qui la posta in gioco è qualcos’altro, c’entra una questione di onore, di prova di forza. Di stima, di ammirazione, chissà. Codici morali che a me, spettatore occidentale, sfuggono; ma che rispetto, in ogni caso.

Inizia il gioco. La carcassa di capra viene gettata in mezzo al prato. Dalla collinetta vicina, decine di cavalieri si lanciano verso il bersaglio. S’ammassano tutti attorno, la polvere copre rapidamente la visuale. Si vedono solo gli elmetti sovietici, le fruste che si sollevano e cadono sulla testa degli altri cavalli e dei giocatori. Da lontano, è un gioco statico: i cavalieri all’esterno non si muovono, aspettano. Più ci si spinge verso l’interno, più il caos aumenta: colpi, cavalli imbizzarriti, gente che si allunga ad afferrare la capra, altri colpi. Il cuore della mischia è un delirio di violenza, i cavalli si feriscono, i cavalieri si riempiono di lividi, e ti viene il sospetto che forse, in quel caos, chi se la passa meglio è la capra. Almeno non soffre.

Ogni tanto, qualcuno riesce a districarsi dall’impasto di zampe, gambe, corpi e polvere, e schizza via: parte al galoppo verso il traguardo, con gli altri cavalieri che inseguono come forsennati. Si braccano ovunque. Per impedire all’avversario di vincere, si rincorrono al di fuori del grande prato, fin sull’orlo del dirupo, fino sulle pendici delle colline dove la gente siede a guardare. Si lanciano tra il pubblico che fugge terrorizzato. Un paio di cavalieri si fanno strada tra la calca addirittura fin dietro la platea, poi ripiombano nel campo di battaglia sfrecciando a un metro da me. E via, di nuovo nella mischia, altre botte, altri strattoni, altri colpi. Finché qualcuno non porta la carcassa di capra al traguardo, e si aggiudica uno dei premi. A quel punto se ne esce, con in mano il premio e sul volto un sorriso di denti d’oro che luccicano al sole. Prima di finire tutti i premi, i cavalieri hanno giocato per almeno cinque ore, sotto un sole martellante quanto le frustate. Devonaho, sì, è il termine esatto.

Eppure non si può non provare un grande rispetto per queste persone. Sono gente comune: non si vedono mastodontici ammassi di muscoli a cavallo, in questo gioco. Il vincitore del primo premio potrebbe essere il panettiere all’angolo della via dove vivo, l’uomo che ha lasciato il campo per la ferita somiglia al guidatore del minibus numero 16 che passa dalla viuzza qui dietro. C’è anche qualche cavaliere evidentemente su d’età, che rischia forse più per un attacco cardiaco che per le botte. Alcuni sembrano ragazzini, altri sono normali padri di famiglia. Vederli rischiare la vita così, per poco, o per nulla, per l’onore, per chissà cosa, è uno spettacolo incomprensibile ma che non può non lasciare ammirati.

Queste persone sono capaci di sopportare cose che ucciderebbero chiunque, nei nostri Paesi. Noi non li conosciamo, li guardiamo spesso come se fossero dei barbari, dei popoli inferiori, o al massimo come creature esotiche. Intossicati da anni di retorica sullo scontro di civiltà, li disprezziamo. Dovremmo invece chinare il capo e rispettarli, ed ammirare la loro grande umanità, l’immensa cortesia, il loro essere al contempo identici e diversi da noi. Ed anche la loro esaltante follia, quando si gettano nel campo del Buzkashi.

Di Fabio Belafatti