Valeria Cipolat incontra per Erodoto lo scrittore Arturo Pérez-Reverte al Festival Dedica di Pordenone. Non sapeva chi fosse. E così ha scoperto mille storie, mille guerre, mille umanità, mille irrequietezze. E il racconto di un cameramen e la scelta di vivere sul filo dell’adrenalina. ‘Una persona, ognuno di noi, può commettere atrocità o un solo gesto nobile’. Leggete i suoi libri.

Foto di Basso Cannarsa

Testo di Valeria Cipolat

“Se n’è mai andato ‘veramente’ da ‘laggiù’?” gli chiedo, mentre apre il suo libro sulla seconda pagina, per cominciare a scrivere. La penna rimane sospesa nell’aria qualche istante di troppo e il suo sguardo posato sul foglio, esita per una frazione di secondo, o così mi era parso. “Mi chiamo Valeria”, gli dico, suggerendo le prime parole che compongono una #dedica. Lo ammetto; non conoscevo Arturo Pérez-Reverte. Né lui, né i suoi libri. Ne ha scritti tantissimi: sicuramente uno che di cose da dire ne ha da vendere. Quante storie avrà ancora raccontare, sporcando chilometri di carta con l’inchiostro dell’avventura. Lo capisco non appena inizia a parlare, dopo la prima domanda del “dialogo” che conclude la settimana dedicata al protagonista di Dedica di quest’anno.

Foto di Luca D’Agostino

Risposte dirette, schiette, pungenti, feroci. L’interprete fatica a stare al suo passo, a trovare le giuste parole che in spagnolo sembrano più efficaci. Ma non è finzione, non è una “posa” che si dà per affascinare o sembrare più interessante, più convincente, o per impressionare interlocutore e pubblico o per conquistare le molte donne presenti. Lui è proprio così: tristemente tormentato da demoni che si annidano dietro un sorriso ironico che indossa con eleganza, insieme al suo cappello a tesa larga di feltro marrone; se lo toglie quando entra nella sala. Uno da cui stare alla larga, mi verrebbe da pensare. Da starne mooolto lontano, per non rischiare di rimanere impigliati tra i fili di morte che hanno intrecciato il suo destino.

Foto di Elia Falaschi

Dopo poche frasi, istintivamente incrocio le braccia. Sono racconti passionali, di un’epoca che non esiste più. E’ partito da lontano Marco Aime, antropologo: ha il compito di interloquire con Arturo e sta cercando un piano comune su cui dialogare. In fondo, li separano solo un lustro. Entrambi figli degli anni ’50, una manciata di tempo, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Entrambi scalpitano, hanno voglia di “andare”. Non sapendo neanche bene dove. Poche cose in uno zaino e via, all’avventura. Mi chiedo quanto difficile possa esser stato per lui nascere e crescere in quell’epoca, quando il franchismo era ancora presente nella Spagna della sua gioventù. Parla della voglia di avventura e la sua passione per la fotografia che l’hanno portato (“per caso”?) al centro di mille guerre. E’ stato inviato a Cipro, in Libano, in Eritrea, in Salvador e in Nicaragua; nella guerra delle Malvinas, in Ciad, in Libia, in Sudan, in Mozambico, in Angola. E ancora nel Golfo Persico, in Croazia, in Bosnia. Sempre in prima linea, insieme ad altri inviati di guerra che si ritrovavano negli stessi alberghi, frequentando gli stessi bar, alla ricerca della stessa cosa: la notizia perfetta, la foto iconica che rappresenti la follia del conflitto. Parla di Marquez, il “suo” cameraman freddo e cinico, con il quale condivideva la sua vita da reporter: lo seguiva ovunque volesse andare. Sciorina aneddoti Arturo, con la naturalezza di un sopravvissuto che è passato attraverso mille tornadi, senza accorgersi che ha camminato molte volte vicino alla morte. Parla di bombe che scoppiavano poco lontano da dove stavano filmando; di proiettili che cadevano a pochi centimetri dai suoi piedi, di granate che troncavano la vita di altri giornalisti (li chiama “incidenti sul lavoro”: un rischio del suo mestiere). Ma le riprese di Marquez, quelle, rimanevano sempre perfettamente ferme. A volte era lui stesso che, per far sembrare più realistica la ripresa, scuoteva con decisione la telecamera. Giornalisti “cow-boy” che vivevano di adrenalina, sfidando la “nera signora”, per documentare quel che succedeva al fronte.

Foto di Luca D’Agostino

Ogni tanto va a trovare Marquez, per ricordare le mille avventure passate insieme. Il vecchio cameraman ha due figli ormai grandi; hanno lasciato casa per vivere la loro vita. Dice Arturo che Marquez si è fermato ai “vecchi tempi”. Fuma e guarda fuori dalla finestra. “Sta invecchiando male” dice a un certo punto “per lo meno io ho la possibilità di scrivere e rivivere così costantemente il passato”. A Marquez ha dedicato il suo libro “Territorio Comanche”. Durante la guerra dei Balcani le cose sono cambiate. Le sue foto e le riprese venivano considerate troppo “cruente” e venivano censurate. La gente a casa non doveva vedere quelle immagini troppo violente. E’ stato allora che ha deciso di smettere. Le cose erano cambiate. Non c’è niente di “poetico” o di “eroico” nella guerra. Ed è quello che invece lui voleva far capire. Nella guerra non ci sono regole. Zelenski o Putin non sono la guerra. La guerra è quella che fanno le persone in prima linea. Gli stupri e i massacri. I soldati che entrano casa per casa dopo che l’aviazione ha fatto piazza pulita. I ragazzi di una scuola che in un alba fredda, obbedivano al proprio insegnante/ufficiale che li guidava ad ammazzare altri ragazzi. Una persona può trucidare, compiere atrocità, oppure… le gesta più nobili del mondo. Guardare negli occhi il proprio nemico. Decidere se ucciderlo o farlo tornare dalla sua donna e il suo bambino. Risparmiarlo o sopprimerlo. Mentre parla mi viene in mente la canzone di De Andrè. La guerra di Piero è scolpita nella mia mente fin da quando da bambina la imparai senza capirne neanche le parole. “sparagli Piero, sparagli ora e dopo un colpo sparagli ancora, fino a che tu non lo vedrai esangue, cadere in terra e coprire il suo sangue…” La serata volge al termine. Acquisto il libro dedicato a Marquez. Pago e mi avvicino al palco, dov’è rimasto in piedi a parlare e firmare libri. La fila si sta esaurendo, il mio turno si avvicina. Ripenso alle sue parole. Ripenso a Marquez che fuma sul bordo del davanzale guardando lontano. Gli dico che ho lavorato molti anni in posti “caldi”: Iraq, Siria, per citarne alcuni. “E’ mai tornato veramente da quei luoghi?” gli chiedo. Mi guarda, forse intuendo che magari posso capire. “Certo che no: io sono ancora là”.

(le foto sono state concesse dal Festival Dedica)