Cartolina dall’Albania di Clara Valenzani

In rruga Sami Frasheri c’è una donna rom che srotola un lenzuolo sul marciapiede. Vedi un guizzo di arancio, e poi arriva il blu.

Perchè Tirana è blu. A prima vista.

Blu sono le impalcature vicino alla bandiera albanese, rossa: sventola aggressiva come l’aquila impressa sopra, fazzoletto setoso che si gonfia prima di tornare a pendere sconsolato, paracadute che per pochi secondi vive un momento di gloria. 

Blu sono i carrozzoni delle giostre in piazza Skanderbeg e le grida dei ragazzi che vorticano a testa in giù: è il colore di una paura felice, adrenalina passeggera.

Blu sono i palazzi a cubo, quadrati di cemento impilati in maniera imprecisa, incompiuti, scomposti come i dolci dei ristoranti stellati.

Blu è il bus verso l’oppressione sotterranea di Bunk’Art: un’ultima zaffata di carne alla brace quando le porte si aprono prima di abbandonarti alla discesa nel sottosuolo; i polmoni compressi da cinque piani di paranoia che premono, il cuore appesantito dal calcestruzzo.

A tratti il blu lascia spazio al verde scuro di un grattacielo, o all’ocra del museo nazionale. Poi, dietro il minareto di Et’hem Bej appare un palazzo rosa acceso con greche oro, quasi un pacco di Natale che non ha bisogno di essere incartato. Più in là, uno sgabbiotto verde acido. Dall’altra parte della strada, una facciata a scacchi. Lì in fondo, dietro la piramide bianca, un bar giallo intenso, come quello delle banane: nessun albanese seppe della loro esistenza fino al 1991, vittime di uno dei regimi isolazionisti più feroci al mondo.

E in Sami Frasheri, c’è ancora una rom che poggia su quel lenzuolo un sacchetto: dentro ci sono cinque arance che si scontrano confuse, disordinate, accatastate malamente. Come i cubi dei palazzi; senza angoli, senza blu.

Ma allora: che cos’è Tirana? Come noi, un colore primario con altri nascosti dietro.