Testo e foto di Alessandro Vaio.  

La Groenlandia orientale è il luogo da me scelto per vedere l’Artide per la prima volta. Come posto promette bene, c’è il fiordo più lungo e profondo del mondo, lo Scoresby Sound, il parco nazionale più grande del mondo (più di tre volte l’Italia) si trova poco più a nord, la fauna è abbondante: buoi muschiati, orsi bianchi, volpi, lepri, girifalchi, lemming, qualche sparuto lupo e decine di migliaia di uccelli migratori, il mare ospita narvali, trichechi, foche e balene di ogni genere. Sulle mappe vi sono tuttora alcune aree marcate come “inesplorato” e la storia della zona è interessante: circa 1000 anni fa alcuni gruppi Inuit migrano dal nord della Groenlandia per insediarsi lungo i fiordi; alcuni secoli dopo queste popolazioni svaniscono e ancora oggi si possono vedere i resti dei loro accampamenti all’interno del fiordo. I colonizzatori successivi, nel XIX secolo, sono i cacciatori di pellicce danesi e norvegesi e i balenieri, fra cui William Scoresby, che cartografa la regione. Infine nel 1924 il governo danese decise di fondare un nuovo villaggio, Ittoqqortoormiit o Scoresby Sound, trasportando da sud un’ottantina di coloni. Ora gli abitanti sono circa 500: in un’area di più di un milione di chilometri quadrati questo è l’unico villaggio, oltre ad alcune basi della pattuglia artica danese, la Sirius Sledge Patrol. Di questo immenso territorio io ho solo percorso Jameson Land e Liverpool Land.

Valle del fiume Gubbe, a Liverpool Land. Groenlandia

Dopo 4 voli, una tappa a Reykjavik e circa due giorni di viaggio, arrivo verso mezzogiorno all’aeroporto di Constable Point: una pista sterrata, qualche baracca, pochi mezzi. È il 15 agosto, un bel giorno soleggiato, l’aria fredda e secca, il panorama è semplicemente immenso, il mare punteggiato di iceberg. Avendo deciso di iniziare la mia spedizione direttamente dall’aeroporto, mi ero fatto spedire dal villaggio un po’ di equipaggiamento: una mappa, 5 litri di benzina per il fornello, uno spray anti-orso e un fucile calibro 30 con una ventina di colpi per difendermi dagli orsi bianchi. Sbrigo alcune formalità col personale dell’aeroporto, preparo lo zaino, mangio insieme al gentilissimo personale dell’aeroporto che mi aveva invitato a pranzo, discuto di alcune cose con una cacciatore Inuit e sono quindi pronto a partire.

Andrò da solo e sono molto esaltato da quello che mi aspetta, avevo preparato questa spedizione da mesi: l’equipaggiamento, le provviste, avevo contattato alcune guide locali per chiedere varie informazioni, mi ero documentato quanto più potevo sul luogo che stavo per visitare. Una volta nella tundra avrei potuto fare affidamento unicamente su me stesso, su quello che avevo imparato e portato. Beh, era ora di mettermi in marcia. Attraverso la pista sterrata e quando avrò varcato il perimetro dell’aeroporto sarò totalmente immerso nella natura selvaggia, in poche parole “hic sunt leones”…

Parto con più di 40 chili di cibo e attrezzatura sulle spalle, e li sento tutti! Infatti i primi giorni sono abbastanza duri e tra il peso che devo portarmi e gli innumerevoli fiumi da attraversare difficilmente percorro più di 10-15 km al giorno. Il mio piano iniziale era di raggiungere i pascoli migliori dei buoi muschiati, situati all’interno di Jameson Land, in particolare nelle zone paludose occidentali, ma nei giorni seguenti dovetti cambiare idea: non avevo tenuto in considerazione quanto potesse essere difficile la marcia nella tundra, il maltempo mi costrinse a cambiare strada varie volte, l’attraversamento dei fiumi si rivelò più volte laborioso. Ma almeno ho trovato subito i buoi muschiati. Per caso il terzo giorno vedo sul terreno delle tracce fresche, le seguo per un po’ e mentre faccio pranzo vedo da molto lontano due grandi “cosi” marrone scuro che si muovono. I buoi muschiati finalmente! Velocemente indosso la mimetica, prendo la macchina fotografica, il fucile e comincio ad avvicinarmi. Sono due, probabilmente due giovani maschi che si riuniscono in attesa di formare un proprio harem: brucano, pascolano lungo le rive umide e più verdi dei ruscelli, si riposano, tipica giornata da bue muschiato. Uno dei due buoi mi viene incontro muggendo, ed è vero quello che si dice sul loro conto, hanno un forte odore simile al muschio. Non è particolarmente aggressivo ma non volendo essere caricato mi mantengo sempre ad una distanza di 30 metri circa, meglio ancora se tra di noi c’è qualche ruscello o roccia. I buoi muschiati hanno due strategie difensive contro i predatori: la prima è il tipico cerchio di difesa coi cucciolo all’interno e un formidabile muro di corna all’esterno, la seconda è semplicemente caricarli. Sono animali di circa 2-4 quintali, alti quanto un uomo e molto veloci, possono anche essere pericolosi, in particolare i maschi solitari durante la stagione degli amori, ad agosto. Li osservo fino a sera, assistendo anche a un breve combattimento: si lanciano l’uno contro l’altro da una cinquantina di metri e il botto è rumoroso, il perdente semplicemente rimbalza indietro. Il giorno seguente di nuovo scorgo un bue muschiato da lontano. Indosso ancora la mimetica, prendo il fucile, la macchina fotografica ed inizio ad avvicinarmi. Indovino la sua direzione e strisciando lungo alcuni ruscelli, riesco ad avvicinarmi senza farmi vedere fino a una cinquantina di metri, poi lo avverto della mia presenza: mi guarda un po’ perplesso, bruca e quando mi avvicino ancora scappa via. Lo inseguo un po’ ma è troppo veloce, lo rivedo solo qualche ora dopo.
Vedendo un po’ di brutto tempo decido che è meglio proseguire e raggiungo la foce del fiume Ryders, una palude di circa 10 km, con gli innumerevoli rami del fiume e sabbie mobili ovunque. Pianto la tenda e decido che il giorno dopo sarei andato in cerca di un guado. Il mattino seguente è stato anche il giorno del mio primo incontro col dominatore incontrastato dell’Artico, l’orso bianco.

Stavo perlustrando la palude alla ricerca di un guado quando di colpo mi giro e noto a qualche centinaio di metri la sagoma bianca di un animale accucciato. Il giorno prima ero passato esattamente nello stesso punto e non c’era niente. Carico subito il fucile e torno indietro con calma, tenendolo costantemente d’occhio e ripassando mentalmente tutto quello che avevo letto su come gestire un incontro con un orso in modo da uscirne entrambi illesi. Lui non si muove e continua a sonnecchiare tranquillo. Sta di fatto che era stato comunque più furbo di me nella scelta del posto per dormire. Intuendo l’arrivo di una tempesta con venti molto forti, si era appisolato al riparo di una collinetta. Io invece avevo piantato la tenda quasi al centro della palude, senza nessun riparo, passando una notte orribile continuamente svegliato dalle raffiche di vento, una delle quali, particolarmente intensa, aveva divelto i paletti della tenda costringendomi ad uscire in piena notte a sistemarli. Quell’orso mi ha fatto pensare ad alcune domande a cui ancora oggi non so rispondere: non mi aveva visto? Sapeva che ero lì e mi aveva evitato? Era passato lì vicino e non gli interessavo? E se era passato lì vicino, quanto vicino? Si era forse messo ad esaminare con calma il mio campo mentre io dormivo ignaro di tutto? Probabilmente no e non lo saprò mai, ma ho ancora impressa nella mente l’immagine del mio primo incontro con un orso bianco.
Avevo lasciato l’orso indietro, ma la tempesta no e per i giorni seguenti sarebbe stato il mio problema principale. Nevica e così finisce la breve estate artica, la minuscola vegetazione diventa già rossa, bacche e funghi sono maturi. Tranne pochi stormi di ritardatari, gli uccelli migratori sono partiti quasi tutti e dei loro banchetti luculliani rimangono solo le strisce di escrementi lasciate lungo le rive dei laghi a seconda dei livelli raggiunti dall’acqua. Sempre alla ricerca di un passaggio per la foce del fiume, che sto ormai risalendo di qualche chilometro, mi accorgo che le mie orme coincidono ormai sempre più con quelle di un paio di orsi e di un branco di buoi muschiati: anche loro, come me, avevano dovuto attraversare la palude e tutti quanti abbiamo usato gli stessi guadi più o meno. Decido quindi che la via per attraversare la palude è la stessa seguita dagli animali e che mi basterà seguirne le orme, d’altronde se un animale di 300 chili o più riesce ad attraversare le sabbie mobili senza sprofondare, pesando 70 chili posso farlo pure io! Mi diverto anche ad osservare le tracce del branco di buoi muschiati: mentre le orme degli adulti seguono una linea dritta e precisa, le orme degli agnellini invece si incrociano continuamente, vanno avanti e indietro, fanno dei tondi, di sicuro attraversare le sabbie mobili per loro è stato molto divertente!

Orme di uomo, orso bianco e bue muschiato fra le paludi del Ryders Elv. Groenlandia

 

Attraversata la palude, sono ormai in una terra diversa, non più Jameson Land ma Liverpool Land. Il paesaggio è cambiato: montagne più alte e più ripide, con più ghiacciai, rocce dal colore più scuro, è una terra più giovane geologicamente, le montagne non sono più formate da ghiaia ma da rocce e massi. Jameson Land discende invece direttamente dal Triassico, è molto ricca in fossili e meta di alcune spedizioni paleontologiche, sulla mappa vi sono molti nomi come Montagna delle Ammoniti o Collina dei Fossili. Pure io, per puro caso ho trovato un fossile: stavo inciampando, arrabbiato do un calcio al sasso colpevole e appena lo rivolto compare una bella conchiglia. Qualche colpo di piccozza e me la prendo.

Lepri artiche, a differenza di altri animali non mutano il mantello invernale

La tempesta si placa leggermente e, andando in esplorazione, mi imbatto in due lepri accucciate. Con molta calma riesco ad avvicinarmi a circa 2-3 metri da loro: mi guardano sospettose ma poi ritornano alle loro faccende, riposarsi, mangiare e riposarsi ancora. Rimango diverse ore con loro, scattando moltissime foto, fino a quando arriva una lepre molto più grande. Le due lepri piccole le corrono incontro e cominciano a poppare. Solo allora capisco che erano due cuccioli e che quella era la loro madre, probabilmente non sapevano che “animale” fossi, ero il primo uomo che vedevano. Stupito in realtà lo ero anche io: mi aspettavo delle lepri di dimensioni consuete, mentre i due cuccioli che avevo incontrato sono più grossi di una lepre adulta nostrana. Immagino che la madre li abbia rimproverati con “Non date confidenze agli sconosciuti!”.
Prima di affievolirsi, la tempesta mi concede però il lusso di sapere quale sia stato il giorno più noioso che abbia mai provato finora: un giorno intero sdraiato dentro la tenda, bagnato, ad aspettare che smettesse di piovere intensamente. Infatti il giorno dopo decido di proseguire, tempesta o no! La fortuna mi assiste, e prima la pioggia, poi le nubi ed infine il vento se ne vanno. Al mio arrivo al villaggio avrei poi saputo che erano stati sospesi i voli per circa una settimana. Era tempo ormai di avere il “battesimo del fuoco”: carico il fucile, miro ad un sasso e sparo. Una strisciata di piombo mi indica che almeno ho un po’ di mira. I giorni seguenti trascorrono tutti colla stessa routine, tra il guado dei fiumi, l’attraversamento di qualche massiccio montuoso, la ricerca di un posto per montare il campo, la guardia per gli orsi, le tracce da seguire.

Dal fronte di un ghiacciaio sgorga il fiume Sø, Liverpool Land. 

Un giorno, mentre attraverso un fiume, perdo l’equilibrio e cado dentro l’acqua gelata. Una notte invece stavo dormendo nel mio sacco a pelo quando sento dei rumori fuori della tenda: immediatamente salto fuori dalla tenda armato dello spray e del coltello pronto ad affrontare un orso. In realtà si trattava solo di una volpe che abbaiava, forse voleva rubare un po’ di cibo o era semplicemente curiosa.

 Dopo aver attraversato un massiccio montuoso con massi franosi, burroni e una mappa imprecisa, finalmente trovo il colle. Mi ci sono voluti tre giorni e una caviglia dolorante.

L’ultima notte prima di raggiungere il villaggio, l’Artico mi concede un altro regalo. Mentre sorseggio del the con del cioccolato nella mia tenda, compare l’aurora boreale: due ore di meraviglia, linee verdi che danzano in mezzo alle stelle.
Il giorno dopo finalmente arrivo al villaggio con solo più un giorno di cibo e dopo circa 3 settimane ritorno alla civiltà! Col linguaggio universale dei gesti e dei sorrisi mi faccio spiegare dove si trova l’unico ostello e, una volta che lo raggiungo, la prima cosa che chiedo è se si possa fare una doccia calda. Dopo 150 chilometri e 18 giorni rivedo il sapone.

Villaggio di Ittoqqortoormiit (nome in groenlandese orientale) o Scoresby Sund (nome in danese).

Il villaggio eschimese sembra veramente un altro mondo: nessuna strada, neanche un porto, case dai colori molto vivaci sparse sulla collina, immondizia e tubature da tutte le parti, cani “parcheggiati” ovunque. Le navi possono attraccare solo due mesi all’anno e due navi e una petroliera portano i rifornimenti fino al disgelo dell’anno successivo. L’aeroporto, raggiungibile in elicottero, dista una cinquantina di chilometri in linea d’aria e spesso in inverno per via del maltempo i voli sono sospesi per settimane, isolando Ittoqqortoormiit dal resto del mondo. C’è un piccolo ambulatorio con un’infermiera ma senza un dottore: un dentista, un oculista, o un ortopedico arrivano solo una o due volte all’anno dalla Danimarca. È una delle ultime società di cacciatori al mondo, si vedono pelli stese ad asciugare, la gente usa regolarmente i cani e le slitte, l’una razza canina permessa è la Groenlandese. Curiosa era la reazione dei cani quando passavo: se andavo in giro disarmato non mi prestavano nessuna attenzione continuando a sonnecchiare tranquilli, se invece andavo in giro col fucile erano tutti eccitati al mio passaggio. Ho chiesto il motivo di questo comportamento e mi fu spiegato che i cani vengono nutriti spesso con carne fresca di foca o bue muschiato ed hanno imparato ad associare l’idea di un uomo armato con quella di un pasto succulento.

Avevo ancora una settimana da trascorrere in Groenlandia. Parlando al villaggio ero venuto a sapere che oltre a qualche orso, anche un bel branco di buoi muschiati si aggirava nella zona. Riparto dunque nella direzione che mi avevano indicato. Trovo di nuovo le loro tracce ma dopo un paio di giorni vedo tracce più fresche nella direzione opposta. Torno indietro, sperando vivamente che non si fossero allontanati troppo.

 Base militare americana abbandonata nella Baia dei Trichechi. Groenlandia

L’ultimo giorno in Groenlandia perlustro la piana della Baia dei Trichechi dove a un paio di chilometri dal villaggio ci sono i resti di una base militare americana abbandonata, ora ridotta solo a un mucchio di macerie esposte alle intemperie. Proseguo e finalmente trovo il branco: un grosso maschio, un paio di femmine cogli agnellini e qualche giovane. Si riposano tranquilli e ho tempo di mangiare il mio solito pasto di cereali, verdure disidratate e funghi locali, poi comincia la caccia. Mi notano subito pertanto mi avvicino direttamente. Ad un certo punto si radunano velocemente e formano il loro tipico cerchio di difesa, col grosso maschio che fa qualche passo avanti muggendo un po’ e tenendomi d’occhio. Mi avvicino ancora e, come se il grosso maschio avesse dato un ordine, l’intera mandria fugge. Li rincorro fino a sera, su e giù per colline e torrenti, avvicinandoli ai lati, strisciando al riparo di qualche altura, talvolta caricandoli direttamente, scattando innumerevoli foto. La loro reazione è sempre la stessa: quando sono a meno di 40-50 metri si raggruppano e poi fuggono, col grosso maschio a proteggere la ritirata, restando sempre fra me e il suo branco. Alla fine scappano via veloci e li saluto.

Tornando al villaggio incrocio orme molto fresche di orso, mi guardo intorno ma non vedo niente. Il giorno dopo parto e, nel viaggio in elicottero dal villaggio all’aeroporto di Constable Point, vediamo sulla spiaggia mamma orso col suo cuccioletto di pochi mesi, stavano lì tranquilli a scrutare l’orizzonte. Sono sicuro che il giorno prima, quando anche io ero nella Baia dei Trichechi, mamma orso e il suo orsetto mi guardavano tranquilli mentre io rincorrevo i buoi muschiati.

Branco di buoi muschiati, Baia dei Trichechi.