di David Eickhoff.  

A sud di Tehran riposano tremila anime cattoliche. Le loro spoglie sono circondate da alte mura. Sono le mura del cimitero di Darvazeh Doulab, intorno al quale si sviluppano storie che parlano dell’Iran, di come era e di come è.

Giorno 1 – Riunione diplomatica

È un giorno di primavera. Le famiglie iraniane sono tornate da poco dalle vacanze di Nawrūz, il capodanno persiano, e la vita nella capitale ha ripreso il passo. Le strade brulicano di gente che si ferma a farsi scaldare le mani dal sole. Presso l’ambasciata austriaca, all’ombra di un pino, si sono riuniti rappresentanti di otto Paesi europei. Sono alcune delle “potenze arroganti” di cui parla la retorica anti-occidentale in Iran, ma a dire il vero, qui sotto il portico dell’ambasciata, i diplomatici non sembrano tanto arroganti. Forse manca loro la piattaforma per mettersi in scena, forse è il fatto che non sono poi così potenti.

Sono diplomatici dell’Austria, della Repubblica Ceca, della Francia, dell’Italia, della Polonia, della Slovacchia, dell’Ungheria e un rappresentante del Vaticano. Vogliono fare qualcosa per salvare un cimitero cattolico nel sud della città che è messo sotto pressione dalla furia costruttrice in atto nella capitale in questi ultimi decenni.

Secondo Mohabat, agenzia di stampa cristiana in Iran, ci sono stati anche lo scorso anno vari casi in cui monumenti cristiani, quali chiese e cimiteri, che sono stati distrutti senza che a tutelarli fossero intervenute le autorità. Non si esclude la possibilità che ciò sia successo perfino con la connivenza di queste ultime.

La discussione questa mattina scorre tranquilla, si è unanimi: bisogna fare qualcosa. Un po’ di retorica sulla situazione della minoranza cristiana nel Paese, un po’ di aneddoti sull’incapacità e la noncuranza delle autorità, e si decide di dare da fare ai rispettivi tirocinanti. I fondi si troveranno in qualche modo.

Io sono capitato nell’istituto culturale austriaco per un tirocinio proprio in questo momento e il giorno dopo mi avvio per il quartiere di Darvazeh Doulab. Non sarà l’ultima volta che passo per le piccole vie, i parchi dove i vecchietti giocano a backgammon, e i negozi piccolissimi dove, ogni volta che entri con lo zaino, butti giù dallo scaffale almeno una scatola di tonno e due confezioni di patatine.

Giorno 2 – Il cimitero

Siavash Rastegar*, architetto di Tehran la cui nonna è sepolta nel cimitero, mi accompagna e mi introduce alla storia del luogo. Ci apre le porte il signor Ahmadi, un quarantenne dai denti neri che vigila sull’ingresso e taglia l’erba fra le tombe. Fino al 1996 il cimitero era usato come luogo di sepoltura dalla comunità cattolica. Fa parte di un complesso di cinque cimiteri cristiani che insieme coprono un’area di 75.000 m², o  quattro volte Piazza del Popolo a Roma.

In quel anno – spiega Rastegar – hanno ritirato il permesso per tenere funerali e ora il posto rischia di cadere nell’oblio. Come terreno edilizio è più che appetibile per gli investitori. Eppure il sito fa parte del patrimonio culturale nazionale, gode cioè di protezione legale. Ma siamo in Iran. – mi ricorda, e prosegue il suo cammino in mezzo alle tombe.

Giorno 3 – Gli Armeni

Oggi vado al cimitero insieme ad Ara, un ragazzo armeno. Qui dicono armeno quando intendono cristiano. È come dire “È di Roma” quando intendi “È italiano”. A volte ci azzecchi, altre volte no. Il cimitero è noto in tutta la zona come il “cimitero degli armeni”, benché delle cinque parti di cui è composto solo due appartengano alla comunità armena. Le altre tre sono delle comunità assira, cattolica e ortodossa rispettivamente.

Gli armeni sono una minoranza culturale, religiosa e linguistica in Iran, provenienti storicamente dalle zone dell’odierna Repubblica Armena. La loro presenza risale al diciassettesimo secolo quando lo scià Abbas I fece venire decine di migliaia di armeni – in maggioranza artigiani e commercianti – alla sua capitale Esfahan. Presero residenza nel quartiere “Nuova Jolfa” e contribuirono allo sviluppo economico e alle grandi opere del tempo.

In seguito al genocidio del 1915 nell’Impero Ottomano ci fu un’altra ondata di emigrazione verso le città iraniane. Oggi si trovano quartieri armeni soprattutto a Esfahan e nella capitale Tehran. La comunità è coesa, ci si conosce e lo scambio è intenso. “La lingua ha svolto un ruolo determinante nel conservare la nostra identità.” – dice Sebouh Sarkissian, arcivescovo della Chiesa armena a Tehran.

Siamo in pieno Ramadan, la gente per strada cammina un po’ meno veloce del solito, gli sguardi verso il tardo pomeriggio si fanno stanchi e spenti. È agosto, il sole è alto. Ara mi racconta di come una volta nel mese di Ramadan, camminando per strada con un suo compagno di classe, aveva bevuto un sorso d’acqua e un tipo con la barba folta gli si era avvicinato di corsa, lo aveva sgridato e minacciato.

“I miei me l’hanno sempre detto – dice Ara – se non vogliamo soccombere, dobbiamo insistere sui nostri diritti. Questa terra non è solo dei musulmani.” Allora aveva rimbeccato e lo hezbollahi, vedendo che non aveva di fronte una preda facile, si era ritirato. Stiamo camminando verso il cimitero, Ara tiene la sua bottiglia d’acqua in mano.

Giorno 4 – Il dialogo delle religioni

Sono venuto al cimitero con Romina e Federico, due ragazzi italiani, cui racconto la storia del luogo.   il signor Ahmadi  non è la prima volta che vede una signora togliersi il velo di fronte a lui. Li conosce ormai, gli europei e la gente dell’ambasciata. Sono loro a pagargli lo stipendio. Qualche mese fa ha avuto una contesa con il cancelliere dell’ambasciata che tardava il pagamento mensile. Voleva che il signor Ahmadi regolasse i conti con l’assicurazione prima. “Roba di tasse” – dice e storce la bocca. Non intende dilungarsi su questo.

In tutti questi anni ha pure imparato qualche parola in inglese e francese. Peyman, un suo  amico che abita in zona e gli fa compagnia durante il giorno, lo aiuta. I due stanno spesso insieme, Peyman lavora sul mercato dei fiori e quando il signor Ahmadi arriva al cimitero verso le nove, Peyman ha già finito di lavorare.

Ahmadi ha lo spirito goliardico, non smette mai di raccontare barzellette. Solo quando parla di donne le sue parole hanno un che di amaro. È sposato e ha una figlia, la sera rimane al cimitero fino a tardi.

Ora nel mese di Ramadan Peyman digiuna. Quando lo dice tira su le spalle e si guarda la punta dei piedi, come se si volesse scusare. Il signor Ahmadi, quando chiedo a lui, fa schioccare la lingua e dice: “Sai, in tutti questi anni, pure io sono diventato un po’ cristiano.” Strizza l’occhio.

Qui sembra funzionare alla meraviglia l’accordo tra le religioni. Forse aiuta il fatto che i tremila cristiani, con cui dialoga il signor Ahmadi, sono tutti morti da tempo.

Giorno 5 – L’esodo dei Polacchi

Un altro giorno vado al cimitero e incontro una coppia armena venuta per commemorare i propri familiari sepolti qui. Il signor Ahmadi versa l’incenso in una ciotola, scalda il carbone e lo porta ai due.

Quando più tardi li incontro all’ingresso della parte polacca attacco discorso: “Fa impressione vedere tutte queste tombe, no?” Gli sguardi dei due scrutano le file di pietre.

Qui sono sepolti millecinquecento civili e militari polacchi che facevano parte del gruppo di 120.000 prigionieri di guerra, rilasciati dalla cattività sovietica nel 1942 e portati in Iran. È una storia intricata che ha a che fare con la liberazione della Polonia dall’occupazione tedesca e sovietica, ed è di un’importanza eccezionale per la narrativa d’origine della nazione polacca. Juliusz Gojlo, ambasciatore polacco in Iran, dice: “Qui riposano i nostri martiri.”

Il signor armeno guarda le tombe. Sono ordinate in file regolarissime. Le date di nascita e di morte sono incise nelle pietre rosse. Esposte ai raggi del sole e alla pioggia d’inverno alcune si sono fatte illeggibili. Qui sono tutti morti fra il 1942 e il 1943. Millecinquecento persone solo a Tehran. Simili cimiteri polacchi si trovano ad Ahvaz, Bandar Anzali, Esfahan, Ghazvin, Khorramshahr e Mashhad.

“Questa è la prova che l’olocausto c’è stato.” – dice indignato il signore.  Siamo in Iran dove il presidente   mette in dubbio la veridicità della storiografia  dell’olocausto.

Giorno 6 – Minoranze e arte nella Repubblica Islamica

Niloufar, una mia amica di Tehran, mi ha invitato a colazione. Andiamo al parco di Niavaran, un quartiere a nord della metropoli. Qui risiedeva l’ultimo scià e si fece costruire un palazzo sfarzoso per far vedere al mondo la sua apparente raffinatezza, lo splendore di duemilacinquecento anni di monarchia; splendore che ben presto lo avrebbe abbagliato a tale punto da perdere di vista la situazione nel Paese.

Niloufar è istruttrice di canto. L’ho conosciuta ad un concerto del suo coro per ragazzi. Cantavano un “Ave Maria” e il canone “Dona nobis pacem”. Niloufar è cristiana, me lo dice en passant, ma preferisce non parlarne mentre compriamo il pane per la colazione. “Mia mamma mi dice sempre di non raccontarlo in giro.”

La situazione delle minoranze religiose è variegata. Mentre gli armeni (cristiani), gli ebrei e i zoroastriani godono di riconoscimento costituzionale e hanno seggi garantiti nel parlamento, lo stesso non vale per i sunniti e altre confessioni quali, notoriamente, i Baha’i.

Le minoranze non riconosciute soffrono di persecuzione, non possono accedere a cariche istituzionali, dare ai loro figli l’educazione che vogliono, e non possono professare la loro fede apertamente. Ma anche quelle riconosciute, nella pratica, sono confinate nelle loro enclave essendo il proselitismo in tutte le sue forme, tranne quella musulmana, vietato per legge. E l’apostasia, cioè l’abiura dell’Islam, nella Repubblica Islamica è anche  stata punita  con la pena di morte.

Qui, nella biblioteca privata dello scià, passando accanto a scaffali strapieni e opere d’arte esposte su due piani, Niloufar mi confida: “Mi fa pena vedere come oggi è tutto in declino, il paesaggio culturale della Repubblica Islamica è diventato un terreno incolto.”

In Iran le minoranze si trovano di fronte ai soliti problemi: esodo dei membri delle comunità (soprattutto gli zoroastriani), alienazione dei singoli, perdita della memoria storica collettiva. Curare il proprio patrimonio culturale in un contesto del genere significa garantire che l’identità venga conservata e tramandata. Così molte chiese armene ospitano concerti di orchestre che non possono esibirsi nelle sale pubbliche per via della censura.

L’Islam ufficiale dei potentati si è dimostrato più che una volta ostile a tutte le espressioni culturali che non siano “allineate”. Tehran, però, è un’isola felice. Nonostante la censura la scena d’arte è vivace e produce opere che ricevono plauso anche dal pubblico internazionale. E non ci si chiude di fronte alle influenze estere. Nel mese di agosto una compagnia teatrale dall’Estonia avrebbe messo in scena l’Antigone di Sofocle. Rappresentazioni erano previste tutte le sere, quattro settimane di fila. Ma quando manca poco alla prima, circola un messaggio di testo: “L’hanno cancellata, non danno il permesso.”

Il risultato paradossale di queste tensioni incessanti sono sale di teatro strapiene di giovani avidi di vedere quel poco che c’è. Anche l’Antigone, alla fine, ottiene il placet della censura e viene presentata cinque volte.

Giorno 7 – Riposo

Il settimo giorno incontro Ninoos davanti al teatro Hafez a Tehran. Un amico comune, violinista, s’esibisce. Ninoos appartiene alla comunità assira che, anch’essa, risente delle condizioni di vita nella Repubblica Islamica e della conseguente emigrazione dei suoi membri. Gli assiri sono una minoranza antichissima che si trova in molti paesi del Medio Oriente. Si vantano di essere fra i primi ad aver accettato la dottrina di Gesù di Nazareth e di essere, quindi, i cristiani di più lunga data.

Ninoos è stato prete, fino a quando ha scelto di vivere la sua omosessualità. “Storie di minoranze, te ne posso raccontare – dice e si aggiusta la sciarpa intorno al collo – ma apriremmo un altro capitolo.” Entra nell’atrio e sparisce nella folla in attesa.

Per un attimo rimango lì a pensare che le vere sfide di queste persone non le ho ancora toccate con le dita. Basta leggere un qualsiasi rapporto sui diritti umani in Iran. Apro la porta, entro e scruto la stanza alla ricerca di Ninoos. Voglio chiedergli della sua vita da appartenente a due minoranze. Una mano mi si posa sulla spalla, sento la voce di lui che con fare da prete dice: “Dai, lascia stare. Oggi è il settimo, giorno in cui il Signore cessò da ogni lavoro.”

*Nomi di persone cambiati per garantire l’anonimità

 

[gdl_gallery title=”cim” width=”275″ height=”150″ ]

Testo di David Eickhoff.  Articolo a cura di Fabio Belafatti.

Si ringrazia il Cimitero Cattolico Doulab di Tehran, (Iran) per le fotografie che corredano questo articolo.